La Lettura, 24 settembre 2017
Sette anni di archeologia per rifare le stanze di Fontana
Per me è un viaggio nel tempo. Lucio Fontana era un uomo meraviglioso. Un uomo generoso e ben consapevole di fare un’arte proiettata nel futuro. Io ero solo una ragazza di poco più di vent’anni e tutti noi lo amavamo: ci fidavamo di lui come ci si fida di un padre, di un vero maestro, d’arte e di vita». La voce di Nanda Vigo è ferma, gli occhi vibrano di felicità. Forte e insieme fragile, percorre sulle ali di una carrozzella le grandi navate del Pirelli HangarBicocca di Milano dove sono stati ricostruiti due grandi Ambienti spaziali del 1964 del «suo» Lucio, che lei ha contribuito a realizzare. E oggi Nanda Vigo è testimone ma anche attiva protagonista di quell’avventura magica, oggetto di una mostra importante che svela, per la prima volta, la ricchezza di un complesso percorso rimasto finora quasi dimenticato nella storia dell’arte.
Lucio Fontana. Ambienti/Environments presenta infatti la ricerca più sperimentale, meno frequentata e sicuramente la meno conosciuta del grande artista, celebrato dal grande pubblico soprattutto per i suoi «tagli» che fendono le tele nell’affermazione di una terza dimensione. Qui, invece, Fontana è presente con grandi opere, realizzate dal 1948 al 1968 che sono andate tutte perdute: composizioni complesse, veri spazi architettonici ricomposti attraverso dialoghi con luci al neon o con luci di Wood. Opere da assorbire con lo sguardo, con tutti i sensi, opere da vivere e contemplare, ma anche luoghi fisici e mentali in cui perdersi per ritrovare un’imprevedibile parte di sé. Lucio Fontana li chiamava Ambienti spaziali.
Una mostra inaspettata, stupefacente, rivelatrice. Una mostra senz’altro storica che si snoda attraverso due Interventi ambientali posti all’inizio e alla fine e nove Ambienti spaziali riproponendoli in un percorso cronologico che davvero appare come un estraniante viaggio nel tempo: la potenza anticipatrice e visionaria dei lavori li fa sembrare incredibilmente attuali. Come se ci fosse un invisibile filo rosso tra le mostre realizzate finora all’HangarBicocca e quella di oggi: un’impronta genetica che proprio in Lucio Fontana trova la grande figura generante e protettiva. E Vicente Todolí – curatore con Marina Pugliese e Barbara Ferriani – sottolinea: «Quando mi è stato presentato il progetto ho scoperto cose che non conoscevo. D’altronde, mi piace fare mostre che vorrei andare a vedere».
Todolí, direttore artistico dell’Hangar, ha infatti accolto tre anni fa la proposta di Pugliese e Ferriani di dare nuova vita a una serie di opere di fatto scomparse e su cui si sapeva pochissimo: solo pensare di creare una mostra intorno a quella ricerca così poco frequentata appariva una sfida difficile. Bisognava attivare un lavoro archeologico di ricostruzione di una memoria sepolta. Recuperata solo in rare occasioni: una di queste, la mostra curata del 2012 da Germano Celant a New York, dove inserisce 4 ambienti di Fontana. Certo, Enrico Crispolti nel catalogo dà ampio spazio agli ambienti e nel 2013 Marco Meneguzzo, in una mostra intitolata Artisti nello spazio al Marca di Catanzaro, ha ricostruito una storia degli ambienti italiani da Fontana a oggi.
Lucio Fontana. Ambienti/Environments nasce dai 4 anni di dottorato di ricerca di Pugliese, storica dell’arte e docente a San Francisco: con rigore scientifico da studiosa e passione da investigatrice, tra il 2009 e il 2016 setaccia archivi di musei, incontra testimoni, parla con sopravvissuti curatori. Con Ferriani, autorevole esperta del restauro dei lavori di Fontana, viene avviato un nuovo lavoro di ricerca: vengono ricostruiti i progetti, ritrovati colori, tessuti, lampade, ricreati filologicamente tutti gli Ambienti. Sette anni di lavoro per arrivare a una mostra fondamentale, che fa comprendere come Fontana abbia condizionato, se non dichiaratamente anticipato, buona parte dell’arte minimalista e concettuale americana. Autori come Dan Flavin o Bruce Nauman non possono non essere stati condizionati da Lucio Fontana ed è come se il genio di Fontana certificasse qui, ad anni di distanza, la sua supremazia culturale e innovativa.
Questa mostra lo dichiara in modo esemplare. Basta varcare il pesante tendaggio nero e scoprire il primo spettacolare intervento: la Struttura al neon per la IX Triennale di Milano del 1951. Collocata originariamente nel monumentale scalone d’onore, era stata ideata per collegare il piano d’ingresso come invito alla scoperta di un nuovo rapporto tra arte e architettura. Ora, all’Hangar, appare come una potente visione cosmica: il frammento di un’antica cattedrale con un piccolo cielo blu, come quello di Giotto ad Assisi, voluto dagli architetti Luciano Baldessari e Marcello Grisotti, per coprire il soffitto decorato di allora. E basta qualche passo per entrare nel primo Ambiente spaziale a luce nera, 1948, per rendersi conto di quanto Fontana fosse animato da una rivoluzionaria consapevolezza: quella di guardare oltre le convenzioni, di sentire l’urgenza di sperimentare linguaggi, usando materiali impensabili. Si scopre così l’opera, presentata nel 1949 alla Galleria del Naviglio di Milano. Alcune foto d’epoca mostrano un gruppo di persone che cercano di toccare alcune composizioni di cartapesta colorata con tinte fluorescenti sospese al soffitto. Il titolo ironizza: Fontana ha toccato la luna.
D’altronde, come prendere sul serio quelle masse informi, colorate di giallo, rosso e viola che scendono dal soffitto di una stanza buia e che sarebbe andata distrutta? Anche la critica qualificata non ne coglie il senso. Lo comprende solo Gio Ponti, che mette l’opera in copertina del numero 236 di «Domus». Lo coglie non un critico d’arte ma un architetto, e forse anche questo la dice lunga. Ma Fontana crede profondamente in quello che fa: non a caso sul retro dell’invito scrive alcuni estratti del Manifiesto Blanco, il primo testo teorico con cui, nel 1946, traccia i temi fondanti del Movimento spaziale.
Fontana già alla fine degli anni Quaranta crea questa corrente con l’intento di superare i linguaggi tradizionali, invitando a un’arte in linea con i progressi della scienza. Ma quel titolo sul giornale non era poi così sbagliato. È sempre curioso scoprire come talvolta l’intuizione di un artista possa partire da suggestioni anche marginali: Fontana vede per caso delle foto aeree scattate da un missile e ne rimane stupefatto. Teorizza così una nuova idea di percezione in cui lo spazio è la somma di tempo, luce, orientamento, suono. Lo spazio come elemento del tutto. E il presente diventa fonte di energia da cui attingere: «Le idee non si rifiutano, germinano nella società, poi pensatori e artisti le esprimono», afferma. Era il suo modo di «toccare la luna».
La vita quotidiana regala infinite occasioni creative: lo dimostrano le opere realizzate nel 1964 con Nanda Vigo in occasione della XIII Triennale di Milano. Il tema della manifestazione è il tempo libero, e a curare la sezione introduttiva sono Umberto Eco e Vittorio Gregotti. Fontana con Vigo realizza una struttura dove il segno della giovane architetto appare già ben riconoscibile: una lunga moquette rossa su un pavimento ondulato e con pareti di vetro creano una dimensione straniante. Fontana lavora sull’ambiguità percettiva, vuole provocare una reazione sensoriale. È la ricerca sull’instabilità corporea, vicina ad altre sperimentazioni internazionali che avrebbero anticipato l’arte concettuale e performativa degli anni Sessanta e Settanta.
Ma è l’intera mostra ad affermare il legame coi linguaggi della «strada». Come Ambiente spaziale con neon: una stanza rivestita di tessuto rosa-ciclamino, illuminata da un unico neon rosso dall’andamento curvilineo. Davvero rivelatrice, poi, l’opera del 1968, presentata a Kassel. Fontana prevede la creazione di uno spazio labirintico bianco, che conduce a un «taglio». Allo spettatore viene offerta un’esperienza realmente meditativa, effetto che si coglie nella potente e spettacolare Fonti di energia, soffitto al neon realizzata per «Italia 61», a Torino, e che chiude simbolicamente la mostra. Alla fine della grande mostra, ripercorrendo a ritroso la cattedrale industriale dell’Hangar, il pensiero va proprio al contrasto tra la vastità del luogo e i microcosmi inventati da Fontana inseguendo la complessità di un pensiero forte sul senso dello spazio, la sua percezione e una nuova visione del mondo, anche come scoperta di sé. E allora viene da pensare che oltre alle importanti teorizzazioni del Manifiesto Blanco, forse Fontana, da gentiluomo elegante e raffinato, animato dalla gioia del vivere, voleva in qualche modo contribuire con la sua arte a una soluzione salvifica su quello che ricordava con amarezza Blaise Pascal: «Tutta l’infelicità dell’uomo deriva dalla sua incapacità di starsene nella sua stanza da solo».