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 2017  settembre 24 Domenica calendario

Il Dna ci conta tutti: siamo (stati) 107 miliardi

Da quando ha avuto inizio la nostra storia di specie, 200 millenni fa in Africa, si calcola che siano vissuti circa 107 miliardi di esseri umani: 107 miliardi di individui geneticamente diversi; 107 miliardi di storie personali, magari ordinarie, ma pur sempre uniche. Una maestosa avventura collettiva, che oggi possiamo ricostruire non soltanto sui siti archeologici e negli archivi, ma anche attraverso il Dna, quel libro composto da tre miliardi di letterine contenuto nel nucleo di ogni nostra cellula. Un libro che tratta anche di storia.
Il trucco sta nel confrontare le variazioni accumulate con il tempo nel genoma di esseri umani che vivono o sono vissuti in diverse parti del mondo. Per disegnare genealogie e tracciare antichi percorsi migratori sono ottimi il Dna mitocondriale e il cromosoma Y, che si trasmettono da un solo genitore (rispettivamente la madre e il padre). Ma oggi i Big data genetici vanno ben oltre, visto che possediamo più di 150 mila genomi umani completamente sequenziati, tra i quali quelli di centinaia di individui morti da moltissimo tempo, e circolano nei laboratori i campioni genetici di milioni di persone.
In Islanda, un paradiso per genetisti in virtù del suo isolamento e dei fedeli registri che documentano un millennio di genealogie familiari, si conosce il genoma completo di diecimila abitanti ed è stato esaminato parzialmente il Dna di un terzo della popolazione (il che porrà problemi nella gestione della privacy genetica).
Incrociando dati genetici e archeologici scopriamo che l’Europa, appendice a fondo chiuso dell’Eurasia, è terra di immigrazione da almeno 1,4 milioni di anni, che i veri europei autoctoni erano i Neanderthal, e che tutti noi europei di oggi discendiamo da un manipolo di migranti di pelle scura arrivati dall’Africa e dal Medio Oriente tra 60 e 45 mila anni fa. Detto altrimenti, ogni europeo ha un antenato africano vissuto al più tardi qualche centinaio di generazioni fa. «Siamo tutti africani» non è un modo di dire, è una frase scritta a caratteri cubitali nel libro di storia del Dna.
Le immigrazioni in Europa continuarono. Tra 9 mila e 7 mila anni fa fu la volta degli agricoltori mediorientali, che si fusero con i cacciatori locali. Intorno a 5 mila anni fa il paesaggio genetico europeo si arricchì del contributo dei pastori nomadi delle steppe asiatiche, alti e con la pelle chiara. Il genoma di ogni europeo odierno (ma lo stesso vale per tutte le regioni prive di insormontabili barriere fisiche) è un miscuglio prodotto dai flussi genici di queste ripetute ondate migratorie. Siamo tutti parenti e tutti differenti. Per la precisione siamo tutti cugini. La maggior parte dei sette miliardi di esseri umani di oggi discende da un ristretto numero di antenati, pari agli abitanti di un villaggio. Basta andare indietro qualche decina di migliaia di anni al massimo e qualsiasi coppia di esseri umani presi a caso – un europeo, un aborigeno australiano, un africano, un amerindio, chiunque – ha avuto almeno un nonno in comune.
Il fatto che la specie Homo sapiens sia così giovane e al contempo mobile e promiscua, con un’origine africana unica e recente, spiega tecnicamente perché è impossibile distinguere sul piano biologico le cosiddette «razze umane», categoria sfortunatamente ancora usata nel dibattito pubblico, ma priva di qualsiasi base scientifica (come hanno ricordato Carlo Alberto Redi e Manuela Monti su «la Lettura» #302 del 10 settembre scorso). A proposito di pregiudizi, i bambini biondi sottratti alle famiglie rom perché ritenuti frutto di rapimenti erano in realtà figli biologici dei loro genitori (è una mutazione recessiva presente nelle comunità rom).
La Breve storia di chiunque sia mai vissuto (Bollati Boringhieri) di Adam Rutherford, scrittore di scienza allievo del vulcanico genetista dello University College di Londra Steve Jones, descrive in modo brillante (a tratti forse un po’ prolisso) le straordinarie scoperte storiche rese possibili dalla genetica e dalla decifrazione del Dna antico conservato nei resti sepolti della nostra specie, nonché nelle ossa e nei denti di altre specie umane estinte in tempi recenti, come i Neanderthal e i misteriosi Denisoviani asiatici. Una parte del loro Dna è entrata nel nostro, il che significa che i nostri antenati uscendo dall’Africa si sono occasionalmente accoppiati con loro, generando una prole ibrida fertile. Dunque il nostro genoma non è puro, ma contiene tracce di altri umani che affollavano il pianeta ancora cinquanta millenni fa. Alcuni indizi genetici lasciano supporre che potrebbero essere esistite altre specie umane recenti sconosciute.
In tempi più prossimi, genetica e cultura si influenzano. La mutazione che permette ad alcuni di noi di digerire il latte anche in età adulta è emersa tre volte (in Europa orientale, Africa occidentale e penisola arabica), intorno a 7.500 anni fa: è un caso in cui una pratica culturale (allevare animali da latte) ha favorito il successo di una variante genetica.
Il confronto tra paleo-genetica e studi storici è affascinante sia quando gli esiti differiscono sia quando combaciano. Per esempio, i conquistatori di una regione non sempre si integrarono con gli autoctoni lasciando un segno biologico nella loro discendenza. Non esiste alcuna firma genetica riconoscibile del popolo celtico, probabilmente un nome dato a una congerie di tribù mescolate. In altri casi invece l’analisi del Dna coincide con i confini storicamente definiti dei popoli, con i loro spostamenti e commistioni.
Grazie all’archeo-genetica possiamo sciogliere altri nodi storiografici interessanti: la peste dell’età di Giustiniano e la peste nera del Trecento vennero dall’Estremo Oriente lungo la via della seta, e non dall’Africa; i problemi fisici e mentali dei rampolli di molte casate regnanti europee (soprattutto gli Asburgo) furono dovuti agli incroci tra consanguinei; le ossa trovate nel 2012 sotto un parcheggio di Leicester erano proprio quelle del perfido e deforme re Riccardo III di shakespeariana memoria. L’identificazione genetica di Jack lo Squartatore invece era solo un’invenzione pubblicitaria.
L’impronta genetica ci permette (talvolta) di smascherare criminali, ma attenzione agli eccessi di fiducia nel Dna. Meglio diffidare ad esempio dei test genetici online proposti da aziende che promettono di svelarci da quale gloriosa tribù guerriera proverrebbero i nostri avi, perché migliaia di anni fa i nostri antenati erano così tanti e così sparsi che in pratica c’è un pezzettino di noi in ognuno di loro. Andando indietro nei secoli (da otto a dieci), le linee di ascendenza di ogni europeo si intrecciano in una maglia ingarbugliata, per cui vi è sempre una discreta probabilità che tra i nostri antenati figurino principi e re medioevali.
La genetica è il dominio della probabilità. Il Dna quindi non è un oracolo. Non è un destino già scritto né un alibi. Rutherford spiega bene tutto ciò che non dobbiamo chiedere a un’indagine genetica: per esempio di chi ci innamoreremo; quanto saranno intelligenti i nostri figli; di che cosa e quando moriremo; se qualcuno diventerà un assassino. Intanto, però, grazie al Dna possiamo curare sempre più malattie, ricostruire frammenti della storia del mondo e smascherare qualche pregiudizio. Non è poco.