il Fatto Quotidiano, 25 settembre 2017
Khmer rossi, la farsa della Corte sui crimini
Tep Khunnal vive da tranquillo pensionato a Malai, cittadina ai confini tra la Cambogia e la Thailandia. A 67 anni, dopo essere stato prima il vice e poi il governatore del distretto, spende le sue giornate curando gli interessi di socio di una cooperativa agricola e di una banca per il micro credito ai contadini. E viaggia per il Paese partecipando a conferenze e dibattiti sul modo in cui va gestita una azienda, perché è un entusiasta seguace delle teorie di Peter Drucker, americano di origina austriaca considerato il fondatore delle moderne teorie sul management.
Tep Khunnal ha tante cose da raccontare. Sull’oggi, certo. Ma soprattutto sul passato. Era il 1975 e lui era il fedele e leale segretario particolare di Pol Pot, il capo dei khmer rossi, che si impadronì della Cambogia con le armi e sottopose il Paese a una delle più feroci dittature mai viste sulla Terra in nome di un comunismo primordiale che voleva tutti contadini. Quattro anni di dittatura di ferro, dal 1975 al 1979 (quando l’esercito del comunista Vietnam invase la Cambogia e mise fine al delirio omicida di Pol Pot) contrassegnati dalla deportazione di milioni di persone dalle città alle campagne, dai lavori forzati, dai matrimoni imposti, dalla pulizia etnica delle minoranze, dalla distruzione delle scuole, delle banche e di ogni istituzione che non fosse legata all’agricoltura. E dall’annientamento fisico di un milione e 700 mila persone, oltre il 20% dei cambogiani, in campi di concentramento, nelle prigioni, nelle camere di tortura, nelle strade al minimo segno di disobbedienza.
Anche dopo la caduta di Pol Pot, Khunnal è stato testimone di eventi chiave del suo paese: fedele e leale a Pol Pot, lo seguì nella giungla per organizzare la resistenza, poi fu inviato a New York alle Nazioni Unite e lì fece in modo che i khmer rossi non fossero spazzati via definitivamente ma potessero continuare a trattare, potessero salvarsi e riorganizzare una nuova vita.
In tutti questi anni, Tep Khunnal non è mai stato chiamato a parlare pubblicamente, tantomeno a rispondere personalmente, degli avvenimenti di quei 4 anni di sangue. Eppure, dal 2006 esiste con sede a Phnom Penh, la capitale del paese, l’Extraordinary Chambers in the Courts of Cambodia (ECCC), ovvero il tribunale straordinario internazionale per giudicare i crimini del regime di Pol Pot e dei khmer. Istituito sotto la supervisione delle Nazioni Unite ben 27 anni dopo la cacciata del dittatore, frutto di mille compromessi a cominciare dalla sede in Cambogia (i tribunali internazionali per i crimini nell’ex Iugoslavia e in Ruanda hanno sede rispettivamente in Olanda e in Tanzania) per finire alla presenza maggioritaria di giudici cambogiani rispetto ai magistrati provenienti da altre nazioni, è destinato a chiudere i battenti molto presto. Forse già con la fine del 2017.
L’ECCC può vantare questo bilancio: in 11 anni di attività, a fronte di una spesa di 300 milioni di dollari provenienti da generosi donatori, ha scodellato 5 atti di accusa (ex Iugoslavia 61, Ruanda 95), per poi arrivare a tre condanne e due non luogo a procedere per intervenuta morte dell’imputato. Anche le inchieste preliminari non superano la decina e oltre la metà si sono arenate o per la morte degli imputati o perché la corte ha stabilito di non aver il potere di giudicare, grazie a una frasetta ambigua inserita nel documento di istituzione dell’ECCC dove si dice che l’obiettivo del tribunale sono “i senior leader (dei khmer, ndr) e coloro con le maggiori responsabilità”. A maggioranza i giudici hanno deciso che non esistono due categorie di possibili accusati ma solo una perché la frase che individua l’obiettivo delle inchieste non va divisa in due!
Questi 11 anni sono stati costellati da pesanti interferenze del potere politico e governativo: dal primo ministro Hun Sen, da giovane aggregato nei reparti militari khmer prima di fuggire in Vietnam, il quale già dopo la prima inchiesta che portava con molte speranze il numero 001, disse all’allora segretario dell’Onu Ban Ki-moon che non avrebbe permesso altri processi per il rischio di una guerra civile, fino all’ex ministro degli Esteri cambogiano Hor Namhong che ha interferito con le attività del tribunale affermando che non avrebbe consentito altre inchieste dopo la prima. A far da condimento, le manovre più o meno nascoste di Paesi che non hanno mai voluto vedere funzionare il tribunale, a cominciare da Cina e Thailandia che nei quattro anni di tragedia per il popolo cambogiano sono stati sempre dalla parte di Pol Pot.
Quella che con larga probabilità sarà l’ultima sentenza alla fine di ottobre, è il completamento del processo 003 che si è concluso a luglio. Sul banco degli imputati c’erano Nuon Chea, 91 anni, ex primo ministro del regime di Pol Pot, soprannominato “Fratello Numero due” per rimarcare la vicinanza del capo supremo, e Khieu Samphan, 86 anni, educazione e università in Francia, che Pol Pot installò sulla sedia di presidente della Cambogia. I due, già condannati al carcere a vita sono stati processati una seconda volta per genocidio e crimini contro l’umanità. Sul conto dei due c’è stata una sfilata di testimonianze dei pochi scampati alle esecuzioni e di molti parenti.
Contro Nuon Chea, c’è stata anche la testimonianza del primo khmer condannato dal tribunale speciale per i crimini dei khmer rossi. Kang Kek Iew, conosciuto come il “compagno Duch”, era il responsabile della Sicurezza Speciale dei khmer e decideva ogni cosa nella prigione S-21, il luogo dove erano stati unificati tutti i luoghi di detenzione dopo la vittoria dei khmer. Kang Kek Iew ha ricordato molti episodi, a cominciare dall’ordine ricevuto da Nuon Chea di non perdere tempo a interrogare un gruppo di prigionieri e di ucciderli. Nel capo S-21 sono stati trovati i documenti con la sua firma: un ordine relativo a un gruppo di 9 bambini e 8 teenager con l’annotazione “fateli a pezzi”, un altro relativo a 20 donne prigioniere dove ordinava “niente esecuzione, sottoponetele a esperimenti medici”, emulazione cambogiana degli esperimenti dei campi di concentramento nazisti. Kang Kek Iew è la dimostrazione evidente delle difficoltà del tribunale sui khmer: fu condannato a 30 anni, ma la pensa fu ridotta di 11 anni. Solo la corte suprema rimise a posto la storia decidendo per il carcere a vita.
Con un milione e 700 mila morti, solo 3 condanne, dunque. Davvero poco, la prova delle mille protezioni di cui hanno goduto i khmer rossi anche da parte di coloro che a parole condannavano le loro atrocità. Basta pensare che dopo la caduta del regime nel 1979 (Pol Pot e i suoi si rifugiarono nella giungla con la speranza di riprendere il potere), la bandiera dei khmer rossi continuò a sventolare alle Nazioni Unite fino al 1992 grazie alle manovre congiunte di Cina, Stati Uniti e di molte nazioni del sud est asiatico a cominciare dalla Thailandia, che considerarono l’intervento del Vietnam in Cambogia come un problema e non la risoluzione della questione Pol Pot. Persino colui che è sempre stato considerato un difensore dei diritti umani come l’ex presidente americano Jimmy Carter, commise l’errore di non intralciare la Cina nei suoi sforzi di rimettere Pol Pot in sella, considerò il seggio all’Onu dei khmer legittimo anche dopo la caduta del regime e fece in modo che le Ong operanti nel sud est asiatico interrompessero gli aiuti al Vietnam.
In ogni caso le attività del tribunale internazionale contro i khmer hanno mostrato al mondo insieme al fastidio dell’attuale leadership cambogiana, l’adesione entusiasta di centinaia di miglia di persone. Sono stati in 535 mila a chiedere di partecipare alle udienze e 150 mila sono riusciti a entrare, dopo ore di disciplinata coda, nell’aula del tribunale progettata come una enorme sfera chiusa da vetri blindati dentro la quale c’erano giudici, imputati e avvocati e intorno alla quale era stata allestita una sala per il pubblico. È assai probabile che questa pressione popolare sia servita alla fine a tenere in vita un tribunale che altri avrebbero preferito chiudere dopo il primo processo a quello che era stato il responsabile di migliaia di esecuzioni. E la sentenza che arriverà entro la fine di ottobre contro l’ex primo ministro Nuon Chea (91 anni) e l’ex presidente Khieu Samphan (86 anni).
Adesso, in attesa delle decisioni della corte per Nuon Chea e Khieu Samphan, sembra davvero cominciato il conto alla rovescia che porterà alla chiusura dell’Extraordinary Chambers in the Courts of Cambodia. La corte speciale viene vista dall’attuale primo ministro come un intralcio alle manovre per essere riconfermato con le elezioni politiche previste nella prima parte del 2018. Nei piani, quel che deve restare come traccia della stagione dei khmer saranno solo i tre anziani che sono stati condannati e il museo sul genocidio che ha sede a Phnom Penh nel campo di prigionia che era diretto dal “compagno Duch”.
Quando tutto questo avverrà, l’ex segretario personale di Pol Pot, Tep Khunnal, che durante la fuga fu il custode dei 19 quaderni che rappresentavano il diario personale di Pol Pot e che lui sostiene di aver smarrito nella giungla mentre scortava la moglie del dittatore (che poi ha sposato) potrà dedicarsi alle sue passioni di pensionato tranquillo e agiato. E sulla stagione di sangue che lo ha visto testimone in prima fila potrà, come spesso accade nei paesi che hanno vissuto tragedie come la guerra civile, tenere una blanda posizione di osservatore che gli ha fatto dire queste parole a chi gli ha chiesto di Pol Pot: “Non voglio dare nessun giudizio su di lui, lasciamolo agli storici. Io penso solo al futuro”.