La Stampa, 25 settembre 2017
Negli Usa le star dello sport in ginocchio contro Trump. I precedenti: quando il campione si ribella
Ali ha iniziato a mescolare sport e messaggi molto prima della conversione, prima di rifiutare l’arruolamento, di finire a processo contro gli Stati Uniti d’America e di farsi crocifiggere sulla copertina di Esquire. Si chiamava ancora Clay, era un ragazzo fiero dell’oro vinto ai Giochi di Roma, felice di rappresentare l’America, di essere bandiera. Sarebbe stato l’orgoglio di Trump. Si è portato la medaglia ovunque fino a che non l’ha buttata nel fiume. E ha iniziato a protestare perché non lo lasciavano entrare in un ristorante.
Mai fare di un campione un martire, Trump avrebbe dovuto dare uno sguardo ai precedenti, si sarebbe accorto che finisce sempre male per chi comanda. Magari ci vogliono anni, ma di media gli atleti sono bravi a resistere e finiscono con il passare alla storia. E ormai i social accorciano i tempi. Ali ha perso contro gli Usa, ma alla fine ha avuto ragione e si è ripreso pure il titolo di campione dei pesi massimi. Oltre alla gloria eterna. È l’esempio più eclatante, non certo l’unico. Jackie Robinson è stato il primo giocatore di colore sotto contratto per una squadra di baseball e appena si è messo la divisa ufficiale sono partiti i fischi e l’appello di tanti politici a toglierlo dal campo. Oggi si celebra il Jackie Robinson day, il giorno della firma.
Gesti per proclamare diritti, il più famoso è il pugno alzato da Tommie Smith e John Carlos ai Giochi del 1968. Loro hanno pagato a lungo la rivolta, rientrati in patria sono usciti dalla nazionale, sono passati dal podio alle lezioni di educazione fisica nei college, solo negli ultimi giorni in carica di Obama sono entrati alla Casa Bianca. Trump non è il primo che rifiuta l’invito ai ribelli: Smith e Carlos non erano i benvenuti e ora tengono discorsi motivazionali in giro per il Paese, celebrati, riconosciuti e contro ogni previsione identificati con l’America. La stessa che nel 1980 ha obbligato i propri atleti a rinunciare alle Olimpiadi di Mosca per un boicottaggio. Stavolta sono stati gli atleti a fare causa agli Usa, l’hanno persa ma al governo Carter non è affatto piaciuto l’effetto a catena. Loro sono diventati i cattivi, in piena Guerra Fredda.
I leader di solito usano lo sport per propaganda: chi con qualche abbraccio che porta voti, chi con un sistema che crea consenso. Spesso non serve nemmeno l’approvazione del campione, basta accostare il successo alla patria. Facile. Trump ha scelto la via opposta e si è messo contro baseball, basket, football. Si dovrà allenare: per tenere il punto gli servirà molto fiato.