la Repubblica, 22 settembre 2017
Valentino, sfida all’estremo. «Soffrirò, ma vale la pena correre è quel che amo»
ALCAÑIZ «Sono felice anche solo di provarci». Sorride, mentre s’appoggia ad una stampella. La gamba destra è fasciata dal piede fin sopra il ginocchio. «No, non sono al massimo. E soffrirò. Ma valeva la pena di essere qui». Valentino c’è, domenica ci prova. A 38 anni la voglia di correre è più forte di tutto. Più forte delle 22 stagioni senza chiudere il gas, dell’ossessione per quel decimo titolo. «Se sono qui, è perché sono un pilota. Guidare una moto è la cosa che mi piace di più, non ci rinuncio. Altrimenti, oggi me ne sarei stato a casa». Un pilota, sì. Però mai nessuno come lui. Uno in grado di andare comunque oltre i limiti, anche su questa pista spagnola – disegnata tra canyon di terra rossa come in un western di Sergio Leone – in cui dicono abbia tutto da perdere. Ma no, Valentino non perde mai. «Domenica mi basterebbe arrivare al traguardo. Se guadagno qualche punticino, tanto meglio. L’importante è accelerare i tempi di recupero: nelle tre trasferte d’ottobre (Giappone, Australia, Malesia) voglio essere il più vicino possibile al top». Rossi stamani sale sulla Yamaha M1, 22 giorni dopo essersi rotto perone e tibia: con un chiodo che tiene insieme le ossa, ed un cuore che gli fa dimenticare dolore, paura, forse prudenza. Un eroe incosciente, romantico. «Dovrò fare attenzione, ma in questa MotoGp sei obbligato a dare il massimo dal primo giro. Alla fine della giornata capiremo molto di più. Se posso resistere».
L’assurdo incidente del 31 agosto, facendo enduro. «Che sfortuna. Mancavano 400 metri alla fine. Ma a pensarci su, è andata anche bene: stava per fare buio, se fosse accaduto qualche chilometro prima chi mi avrebbe riportato a valle e in ospedale?». Era la vigilia di Misano. «Sì ma quel percorso lo faccio con gli amici da quando ho 18 anni, almeno 4-5 volte all’anno: nessuno poteva immaginare una cosa del genere». Tre mesi fa, qualche giorno prima del Mugello, si era quasi sfondato il torace facendo cross. «Infatti il cross da quel giorno lo abbiamo inserito nella black list. Ma l’enduro, no. Il punto è che un motociclista deve allenarsi, e con la moto ti prendi dei rischi. Vuol dire che il prossimo anno prima delle gare italiane me ne starò sul divano». Ride. Ma come fa ad essere sempre così positivo? Gli chiedono di scegliere l’équipe medica ‘ideale’ da cui vorrebbe farsi curare, la prossima volta. E lui: «Mi farei operare da mio fratello, Luca Marini, ché di lui mi fido. L’ambulanza a Franco Morbidelli, uno che guida bene. L’infermiera la fa Nicolò Bulega, che ha i capelli biondi e lunghi».
Anche nel 2010 si era rotto perone e tibia, ma era tornato dopo 40 giorni. Cosa è cambiato, da allora? «Quella era una frattura esposta. E poi, la medicina ha fatto incredibili passi in avanti. Il chirurgo che mi ha operato a Pesaro è stato bravissimo, la sera dopo ho capito che potevo già andarmene a casa. E ho cominciato a fare fisioterapia. Pensavo di rientrare a Motegi, metà ottobre. Ma dopo una decina di giorni mi sono detto: perché no?». Appunto. Perché no? «Martedì, venti giri a Misano e ho deciso. Qui sarà tutto più difficile, ma comunque vada mi servirà per entrare in forma». Senza pensare al mondiale. «Non sarebbe intelligente. Il mio obiettivo è fare un passo alla volta, continuare a migliorare». Il dolore c’è, eccome. «Soprattutto nei cambi di direzione e nelle curve a destra, che per fortuna ad Aragon sono poche». Ma l’importante è correre. «È tutto quello che amo. Perché io sono un pilota: un pilota felice, che non vuole fermarsi».