la Repubblica, 22 settembre 2017
Il mistero delle urne nascoste rafforza le speranze catalane
BARCELLONA «Non sono mai stato indipendentista. Anzi, non lo ero. Fino a pochi giorni fa». Xavi è un libraio che gestisce un piccolo negozio nel cuore del Barri Gòtic. Estraneo alle lotte del movimento secessionista prima del giro di vite imposto da Madrid, ora è in prima fila, in piazza, a distribuire volantini che recano solo un grande slogan: «Votem per ser lliures». Votiamo per essere liberi. Libertà è la parola che risuona con forza, il giorno dopo la retata della Guardia Civil, sulla grande spianata dell’Arc de Triomf, davanti all’imponente sagoma dell’edificio che ospita la sede del Tribunale supremo catalano, responsabile degli arresti che hanno sconvolto la politica e la società della regione ribelle. «Detinguts llibertat», libertà per i detenuti, scandiscono a migliaia, avvolti nelle «estelades», le bandiere dell’indipendenza. In realtà già 7 delle 14 persone fermate sono state rilasciate per ordine del giudice. Ma la tensione resta altissima e nessuno è in grado di prevedere che cosa potrà succedere da qui al 1° ottobre, nei dieci giorni che ci separano dalla data fissata per un referendum dai contorni incerti.
«È evidente che lo Stato ha alterato le condizioni del gioco», ha dovuto ammettere ieri mattina Oriol Junqueras, il vicepresidente della Generalitat, quasi in lacrime in un’intervista radiofonica all’emittente Rac1. Dunque lo stesso Govern non sarebbe più in grado di garantire l’appuntamento con le urne, ma a riaccendere la speranza è stato in serata il presidente Puigdemont, che ha pubblicato via web l’elenco dei collegi elettorali. Junqueras spera comunque almeno in una «mobilitazione straordinaria» per quella giornata. E sarebbe, dice, la «vera mozione di censura contro Rajoy». È chiaro che la strategia del premier – che ha messo in campo la politica, la magistratura e le forze di polizia – per il momento ha dato i suoi frutti. Più di dieci milioni di schede elettorali sequestrate, i collegi di scrutatori e presidenti di seggio che non si sono potuti formare per il boicottaggio delle poste nell’invio delle lettere. E una sola incognita: le urne. Non si sa dove siano state nascoste. Se si riuscirà a mantenere il segreto, potrebbero almeno servire, quella prima domenica di ottobre, per allestire banchetti dove la gente sia chiamata a esprimere, con un gesto simbolico, la volontà di andare alle urne.
«Mobilitazione permanente», è la consegna lanciata sin da mercoledì mattina dall’Assemblea nacional catalana e da Òmnium cultural, i due grandi movimenti della società civile che in questi anni si sono incaricati di canalizzare in modo pacifico le proteste del campo separatista. «Niente provocazioni, niente violenza», twitta il presidente dell’Anc, Jordi Sànchez. Finora gli hanno dato retta. Persino nella giornata più lunga, quella degli arresti, si è evitato il peggio. E non era affatto scontato. A migliaia – fino a 40mila persone – si sono riuniti sulla Rambla de Catalunya davanti alla Conselleria d’Economia, l’assessorato nel quale di primo mattino aveva fatto irruzione la Guardia Civil. Ma gli agenti sono rimasti bloccati dentro per tutta la giornata, assediati dai manifestanti, mentre le loro auto di servizio erano saccheggiate e semidistrutte. Una situazione di stallo andata avanti sino a tarda notte, nonostante la presenza in forze dei Mossos d’Esquadra, la polizia regionale, con oltre trenta furgoni dei reparti antisommossa schierati nella zona. Passata la mezzanotte è stato lo stesso magistrato che aveva ordinato l’ondata di arresti ad alzare il telefono e chiamare il comandante dei Mossos e ordinargli di sgombrare la strada. Con qualche imbarazzo, parte la carica a colpi di manganello, breve ma sufficiente per provocare le urla di «vergogna, vergogna» dei manifestanti delusi da un corpo di polizia ritenuto alleato del «procès» indipendentista. Ma il vero timore, in queste ore di tensione, è che possa scoppiare qualche incidente grave, magari provocato dalle frange più estremiste del movimento. Sarebbe l’alibi perfetto per Rajoy (che ieri ha invitato il governo di Puigdemont a «fare marcia indietro» prima che «la situazione degeneri») per inasprire ulteriormente le misure repressive. Un gioco pericoloso quello del premier. E non è detto che possa funzionare. Intanto il capo della Moncloa ha già subito il primo danno collaterale: approvazione del bilancio dello Stato rinviata per il “no” dei nazionalisti baschi, indignati dalla piega che hanno preso le cose in Catalogna. E poi, a Barcellona, incomincia a farsi strada tra le forze politiche l’ipotesi di elezione anticipate. Sull’onda dell’anti-spagnolismo montante, i gruppi indipendentisti sperano di poter fare il pieno di voti.