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 2017  settembre 22 Venerdì calendario

Rischio «bolla» in Cina, S&P taglia il rating

Non è un bel segnale in vista del prossimo Congresso del Partito comunista cinese, che si aprirà a Pechino il 18 ottobre prossimo, anche se c’è chi ne minimizza l’impatto politico. Non lo è neanche davanti all’ottimismo di una Borsa rampante e di una crescita, a metà anno, del 6,9 per cento.
Ci ha pensato Standard &Poor’s Global Ratings – a borse ormai chiuse – a rimettere la Cina con i piedi per terra seguendo le orme di Moody’s, che aveva fatto altrettanto quattro mesi fa: l’agenzia ha rivisto al ribasso il rating di lungo periodo della Cina, a A+ da AA-.
Questa pagella negativa sarebbe la conseguenza della crescita del debito corporate: il vortice dei crediti facili ha, infatti, incrementato il pericolo di rischi finanziari sistemici. Proprio quelli che il premier Li Keqiang – nel suo discorso rivolto alla Plenaria del Parlamento cinese lo scorso 5 marzo – aveva messo in cima alla lista delle cose da evitare a tutti i costi. Da qui era nata, a gennaio, la lotta serrata alla fuga di capitali mentre la Banca centrale sosteneva a piene mani lo yuan debole attingendo alle riserve in valuta.
Già in giugno l’agenzia S&P aveva paventato la decisione lasciando, comunque, uno spiraglio, una via di fuga legata alla capacità delle autorità cinesi di mettere un freno ai crediti. Visto che nulla è cambiato, nel frattempo, S&P è passata alle vie brevi tagliando anch’essa il rating.
Di là dagli indicatori particolarmente positivi delle ultime settimane, i problemi di fondo sono rimasti inalterati.
Il motto per la Cina, oggi, è un sano “corporate deleveraging” abbinato alla ristrutturazione delle compagnie statali che procede a rilento, tra mille difficoltà, mettendo a repentaglio anche le aziende private che lamentano la concorrenza sleale tra i colossi pubblici e le società private.
In altri termini le società devono far pulizia nei bilanci e dismettere asset inutili o dannosi in modo tale da catturare l’interesse degli investitori. Non solo. Basta con acquisizioni all’estero avventate e basta anche alle ristrutturazioni del debito fatte ad arte, senza alcuno scopo utile a rimettere in carreggiata le società.
Anche il Fondo monetario internazionale – non solo le agenzie di rating – ha messo di recente in guardia la Cina auspicando una correzione alla dannosa traiettoria del debito: nel settore non finanziario il debito dovrebbe crescere addirittura del 330% entro il 2022, dal 242 dell’anno scorso. Una situazione difficile davanti alla quale spesso i cinesi preferiscono minimizzare.
Sembra comunque che il sistema bancario non ci senta perché in agosto ha veicolato 165,40 miliardi di dollari, mentre la crescita dei prestiti ha superato il 13,2 per cento.
Il monitoraggio dei prestiti interbancari e la lotta allo shadow banking sono stati importanti, finora, ma la spirale del debito spinge le società a usare i profitti per ripianare le pendenze. Certo non è un bene per l’economia reale a corto di soldi da investire in ricerca, sviluppo, innovazione. Il problema cinese di dover passare, inoltre, dalla quantità della crescita alla qualità resta inalterato, ed è anche questo un fattore negativo tale da condizionare le valutazioni di Fitch, Moody’s e S&P.
La struttura economica della Cina stenta ad adeguarsi a un modello guidato dai servizi (ancora sottostimati) nonché dal driver dei consumi.
Anche questo elemento entrerà nel calderone dei temi che il prossimo Congresso dovrà affrontare in vista del secondo quinquennio di potere di Xi Jinping.