Il Sole 24 Ore, 22 settembre 2017
Ecco il segreto delle nuove «sette sorelle» del cash flow
L’unico paragone possibile nella storia recente è con le “sette sorelle”. I big del petrolio sono stati per decenni un oligopolio perfetto: dominavano il mercato, producevano ingenti flussi di cassa che venivano destinati in buona parte agli investimenti per nuovi giacimenti e per il resto in lauti dividendi. Ma l’estrema volatilità del prezzo del greggio ( e la lunga fase di bassi prezzi degli ultimi anni) hanno messo fuori gioco i giganti dell’oro nero. Non sono più da tempo le “cash cow” del mercato. Sostituite in toto ormai dai nuovi padroni del Web-tech. Anche le regine della tecnologia hanno importanti investimenti produttivi, ma ben lontani dalle risorse chieste allo sviluppo dei grandi giacimenti petroliferi. Non solo, ma ogni aggiornamento di prodotto e processo comporta investimenti marginali via via minori. E così sono ora loro i grandi produttori di cassa. A tal punto da veder incrementare anno su anno il reddito prodotto dopo aver spesato costi e investimenti in ricerca e sviluppo. Basti dare un’occhiata ai conti. Apple ad esempio produce cassa dalle sue attività operative per oltre 60 miliardi l’anno. Di questi vanno a finanziare gli investimenti solo 12 miliardi. Il 20% di quella produzione di cassa operativa. L’eccedenza finisce in attività finanziarie. Nel 2016 la società di Cupertino ha usato 31 miliardi, la metà di quel tesoretto per comprarsi titoli sul mercato. Copione identico per Google (ora Alphabet). Il dominus del Web ha più che raddoppiato dal 2012 il valore della cassa prodotta dalla sua attività. In 5 anni è passata da 16 miliardi a 36 miliardi. Anche in questo caso le necessità di nuovi investimenti per il futuro consumano meno del 30% di quella disponibilità enorme di liquidità. E così anche Google non trova niente di meglio che investire ben 15 miliardi nell’acquisto di asset finanziari. Lo schema si riproduce più o meno nelle stesse dimensioni per tutti i grandi del settore. I prezzi di vendita degli smartphone e dei pc, la raccolta pubblicitaria sono tali da coprire ampiamente i costi operativi. La marginalità industriale di queste aziende viaggia infatti tipicamente su livelli che superano ampiamente il 30% del giro d’affari. Spesati gli investimenti e pagati quei pochi oneri finanziari su debiti assai contenuti se non a zero, tutto il resto è grasso che cola. È cassa libera in cerca di impieghi. Troppa grazia si dirà. Lo sbocco inevitabile diventa allora quello degli impieghi finanziari che come si è visto (vedi articolo a fianco) valgono ormai in media la metà dell’intero bilancio. Non solo, ma i giganti della rivoluzione tecnologica sono anche i campioni del buy back. Comprano non solo titoli di altri, ma anche le loro stesse azioni. Solo per dare un’idea l’azienda di Tim Cook ha deliberato nel 2016 un piano di riacquisto delle proprie azioni portando l’ammontare da 140 miliardi di dollari a 175 miliardi. Anche Alphabet ha un piano di riacquisto delle proprie azioni di Classe C per un ammontare di oltre 7 miliardi di titoli. Dietro la lunga corsa dei titoli tech in Borsa c’è anche lo zampino delle stesse società. I piani di riacquisto creano domanda sul titolo e quindi influiscono sul rialzo del loro valore. Anche questo è un modo per impiegare al meglio la liquidità gigantesca dei grandi del Web.Quasi un universo autarchico. Produco denaro e ne impiego una parte per sostenere me stesso in borsa. È la nuova finanza, bellezza.