Corriere della Sera, 22 settembre 2017
Maestra assolta ma lo Stato non paga le spese del processo
L’errore giudiziario in senso tecnico e il processo troppo lungo è usuale siano indennizzati: ma quando si è assolti alla fine di un processo super giusto, nel senso che esistevano tutti i corretti presupposti perché fosse istruito allo scopo di accertare un fatto nell’interesse della collettività, il sacrificio anche economico imposto all’imputato (cioè le spese per l’avvocato) può continuare a essere considerato soltanto una disgrazia capitatagli, quasi fosse un fulmine che gli cade in testa per sfortuna? Esistono Paesi che – lungi dall’ottica vagamente punitiva dei magistrati serpeggiante nelle poche proposte di legge avanzate negli anni in Parlamento, ad esempio dagli onorevoli Castelli, Galli e Albertini – si sono posti il problema della «vittima del processo» e dei «danni da attività processuale», tema di uno studio coordinato dal professore Giorgio Spangher tra 5 università di Roma, Salerno, Palermo, Foggia e Bari: in Germania, ad esempio, lo Stato paga le spese difensive all’imputato se, assolto con formula piena, non ha ostacolato o ritardato il giudizio. In Italia in teoria una legge fa ripagare, secondo tariffe forensi, le spese legali dei dipendenti pubblici processati a causa del loro lavoro per lo Stato. In teoria, però: lo sa la maestra indagata a Milano nel 2008 per falsa testimonianza, nell’ipotesi che avesse taciuto che un disegno erotico, attribuito a due fratellini e causa del loro allontanamento dai genitori di Basiglio per sospetti abusi sessuali, era invece stato fatto da un’altra scolara in altro contesto. Processata, difesa dal legale Francesco Poggi, e assolta nel merito in Tribunale nel 2011 e definitivamente in Appello nel 2013, attende ancora il pagamento per legge delle spese benché il ministero dell’Istruzione glielo abbia riconosciuto anche per iscritto in 70.000 euro (somma che fa intuire quanto già il solo costo difensivo di un processo possa stravolgere persone con stipendio medio). La maestra impara infatti sulla propria pelle che un conto è che ci sia il «diritto» ai soldi; un altro che lo Stato «impegni» la somma; e un altro ancora che ci sia pure la «cassa», cioè che lo Stato metta davvero, in fasi imperscrutabili dell’anno, un sufficiente budget su quel capitolo di spesa, peraltro subito prosciugato per saldare prima altri contenziosi con fornitori. Ancora a metà 2016 il ministero promise entro fine anno i soldi alla maestra, che a tutt’oggi non ha però visto un euro. E un sollecito di luglio 2017 è rimasto sinora inevaso.