Avvenire, 20 settembre 2017
Sport e depressione, l’altra faccia della medaglia
Dipendere da quei pochi secondi sul tabellone per sapere se vale davvero la pena di vivere e sentirsi un fallimento completo se quei numeri non segnalano che siamo vittoriosi. Così si sentono la maggior parte degli sportivi secondo uno studio dell’università di Loughborough, l’ ateneo britannico più famoso nel settore dello sport. Una pressione a vincere e un isolamento, nel disperato tentativo di arrivare primi, che possono scatenare la depressione quando i secondi contati dal cronometro o i set aggiudicati dall’arbitro non sono sufficienti ad assicurare la vittoria. I ricercatori di Loughborough hanno studiato le autobiografie di dodici atleti famosi. Dai campioni di tennis Andre Agassi e Serena Williams, al ciclista Graeme Obree, dall’ australiano asso del nuoto Ian Thorpe al calciatore Clarke Carlisle. Dalla pistardVictoria Pendleton al rugbista Jonny Wilkinson. Risultato della ricerca intitolata «Il lato oscuro dello sport di alto livello: uno studio autobiografico delle esperienze di depressione negli atleti di elite» e pubblicata dalla rivistaFrontiers in Psychology? Il legame tra sport e depressione è forte e poco conosciuto. Anche perché la malattia mentale è ancora motivo di vergogna e se ne parla poco. «Volevamo descrivere i meccanismi che fanno scattare la depressione per mettere in grado allenatori e sportivi delle prossime generazioni di captare tratti del carattere e situazioni di vita che possono portare alla malattia», spiega il dottor David Fletcher, docente di sport e psicologia della prestazione alla Loughborough University, «una personalità troppo autocritica, per esempio, oppure perfezionista mette a rischio di depressione così come una paura eccessiva di fallire. Tutti questi tratti segnalano un soggetto che si abbatte facilmente». Ciascuno dei dodici atleti parla, nella sua autobiografia, di quel passaggio della loro vita quando le pressioni personali e professionali sono diventate troppo forti e la depressione ha avuto il sopravvento. Il fallimento in gara è stato spesso un fattore scatenante. Il ciclista Graeme Obree, descrive l’esperienza di non arrivare primo come una «morte emotiva» e «una sensazione di autodistruzione». Il giocatore di cricket Marcus Trescothick racconta come la depressione era così intensa da impedirgli di allenarsi. È stato proprio lui, nel 2008, a parlare con coraggio per primo del suo esaurimento nervoso. «Benchè lo stigma che circonda la malattia mentale sia oggi minore, gli atleti parlano più volentieri dei loro infortuni che dei loro problemi psicologici», spiega la ricercatrice Hannah Newman, «è importante ammettere che la malattia mentale può colpire chiunque, sportivi di alto livello compresi».«Non c’è dubbio che gli atleti facciano fatica a parlare delle loro difficoltà perché vengono considerati dei “duri”, mentalmente fortissimi. Sentono di dover essere all’altezza di questa immagine, una pressione non indifferente», spiega Karen Howells, docente di sport e psicologia, che ha partecipato allo studio: «Un momento particolarmente delicato è il post Olimpiadi perché si affievolisce l’euforia della vittoria, quando c’è stata, e gli atleti devono tornare alla vita quotidiana con la dura routine degli allenamenti. La depressione da post Olimpiadi è più diffusa di quanto si creda».