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 2017  settembre 18 Lunedì calendario

Maria Sharapova: «Ho sfidato la risata di Dio»

Aveva progettato tutto, confessa nella sua autobiografia ancora inedita: prima l’Olimpiade di Rio, poi i tornei del Grande Slam e infine l’addio, da annunciare proprio in questi giorni, durante gli Us Open. «Avrei raccontato la mia storia, fatto un bell’inchino e detto “Arrivederci”. Ma sai come si dice: l’uomo pianifica, Dio ride», scrive Maria Sharapova, con un’amarezza che è persino difficile immaginare, stampata su quella bocca.
Sognava di battere ancora una volta Serena Williams, un gusto provato solo in due occasioni in carriera: «I suoi punti di forza s’incastrano come pezzi di un puzzle con le mie debolezze», ammette, insolitamente arresa. «Posso battere le tenniste che la battono, ma lei no. Io so perché, Serena sa perché, è il nostro segreto».
La risata di dio arriva nell’estate del 2016, dopo dodici annidi professionismo e cinque Slam vinti: una mail dalla Commissione antidoping deH’Intemational Tennis Federation che la informa della positività al meldonium, sostanza che aveva preso per dieci anni, su prescrizione di un medico di famiglia: «È un coadiuvante del cuore, una specie di cardioaspirina da scaffale. Da ragazza avevo elettrocardiogrammi sballati e una storia familiare di diabete, ecco perché l’assumevo. Mia nonna la prende da una vita».
Ma ugualmente, inesorabile, arriva la squalifica a due anni, ridotta poi in appello a quindici mesi. E con la squalifica, anche la sospensione da tutte le sponsorizzazioni (ora ripristinate), con Nike in testa: «Mi conoscevano sin da bambina ma emisero un comunicato gelido, che mi ferì. Del resto, è quando la merda s’avvicina al ventilatore che riesci a distinguere gli amici veri dai semplici conoscenti». Piove il fango, piovono i dubbi, «le lacrime isteriche versate tutta la notte». Fino al ritorno, recente, sui campi da gioco: «A lasciare adesso non ci penso più. Penso solo a giocare, più a lungo che posso, più cattiva che posso. Finché non tireranno giù le reti. Finché non bruceranno le mie racchette. Finché non mi fermeranno. E voglio proprio vederli in faccia, mentre ci provano ancora».
Pagina 289: sono queste le parole da madre dei draghi con cui Maria Sharapova chiude il suo libro, in uscita per Penguin Books martedì 12 settembre (solo in Usa e Inghilterra) e che SportWeek ha potuto leggere in anteprima. Il titolo, un po’ agiografico, ne riassume però bene il contenuto: Unstoppable, inarrestabile. La storia di una bambina indiavolata e di un padre non despota ma sciamano, partiti dalla Siberia con 700 dollari in tasca per andare a cercar fortuna in Florida, da soli, dormendo abbracciati su un divano letto, spesso ospiti di qualche famiglia compassionevole. Lei che a 4 anni già colpiva e colpiva senza sosta, quasi un fenomeno da baraccone, «con la racchetta gigante presa in prestito, il manico accorciato, e le ginocchia sproporzionate, più larghe delle cosce. A Mosca, così comica, mi notò Martina Navratilova: “È un fenomeno” disse a mio padre. “Portala in America”». E papà Yuri lo fa. Lui che legge i segni del destino e li interpreta, cambia allenatori e strategie e non sbaglia mai, salvo quando si convince che Masha (è questo il suo nome di battesimo) dovesse trasformarsi in una tennista mancina come McEnroe e Nadal, a 13 anni compiuti, «per diventare imbattibile». Progetto abbandonato dopo pochi mesi per fortuna, e solo dopo aver letto un oroscopo pubblicato da un magazine specializzato: “Le iniziali della più grande tennista della storia saranno M.S.”, aveva scritto l’astrologo, grazie al cielo. “E giocherà con la mano destra”. Unstoppable è un libro dove vita e tennis sono la stessa cosa. Descrizioni infinite di partite e di colpi ripetuti senza mai sentir la noia, privo però delle rivelazioni sconvolgenti che hanno fatto la fortuna di Open, la bio di Andre Agassi. «Voi vorreste che amassimo questo sport, perché sarebbe più divertente da vedere», scrive Sharapova a un certo punto, rivolgendosi ai fan e con Agassi probabilmente in testa, «ma la verità è che no: non lo amiamo affatto. È lì e basta, e noi dobbiamo continuare a giocarlo».
Maria Sharapova nasce a Nyagan, nella Siberia sovietica, il 19 aprile 1987.1 genitori si erano rifugiati lì dopo l’esplosione della centrale nucleare di Chernobyl, a pochi chilometri dalla quale viveva la famiglia al completo. Giorni di disinformazione, con le autorità che neppure consigliavano alle famiglie di chiudere le finestre e i contadini che mostravano felici i funghi porcini enormi, come non s’erano mai visti prima nei boschi. «E mentre aspettava me, mamma beveva quell’acqua contaminata e mangiava quella verdura: credo di essere una donna atomica, e di esser diventata un metro e 88 grazie alle radiazioni» scrive, sottolineando la bassa statura dei genitori.
Yuri in Siberia però non ci vuole stare, e trasferisce tutta la famiglia a Sochi, dove un amico gli regala per scherzo una racchetta da tennis. «Papà amava l’hockey e le camminate in montagna, ed era convinto che il tennis fosse uno sport da nobili decaduti e annoiati». Un uomo pratico e non scolarizzato, che di mestiere puliva le canne fumarie delle ciminiere, sospeso a decine di metri da terra, mentre mamma è delicata e colta, e a Maria fa mandare a memoria i classici russi, prima ancora che ne capisse il significato. Una famiglia giovane, con eccessi di vanità che quasi le costano la vita: «Eravamo in piscina, mi sentii poco bene e andai a fondo. Mi misi a urlare: “Nonna! Nonna!”. Ma lei niente, non veniva ad aiutarmi, e fui salvata da un bagnante. Il motivo me lo spiegò anni dopo: aveva 45 anni, e si vergognava a far saper a tutti di avere una nipote».
PIÙ DURA DI UN MURO
È a Sochi che un giorno, vedendo la racchetta inutilizzata di papà, Maria comincia a far rimbalzare palle contro un muro. «La mia capacità di concentrazione era infinita: ero un metronomo, e la gente si fermava a guardare. Non avevo velocità, non avevo forza, ma avevo furore, e avrei potuto farlo all’infinito. Volevo impressionare mio padre? Forse. Ma la verità, è che volevo batterli tutti».
Con un visto turistico ottenuto miracolosamente planano a Miami, dove vengono raggirati e quasi sequestrati da Sekou Bangoura, un ex professionista di colore che aveva fondato un’accademia tennistica: con lui, nel libro, Sharapova è durissima. Scampato il pericolo, Yuri legge su una rivista che Anna Kournikova si allena alla Bollettieri Tennis Academy di Bradenton, e ottiene un provino. Bastano pochi scambi, a uno dei coach, per chiamare Nick Bollettieri in persona: «Boss, qui c’è una cosa fenomenale che deve proprio vedere».
Da lì sarà tutta un’ascesa, una conferma, fino alla vittoria del primo Wimbledon contro Serena Williams, il 6 luglio del 2004: «Arrivai negli spogliatoi e la sentii singhiozzare: so che mi ha odiata. Odiata per esser la ragazzina magra che l’aveva battuta di fronte al mondo. Odiata per averla vista nel suo momento più basso. Da quel giorno, non mi ha mai perdonata». Nasce una strana reazione chimica, uno strano patto psicologico: Serena sul campo avrà sempre diritto a una rivincita. E Maria, che non molla mai, gliela concederà. Una scelta irripetibile, per un’atleta che sin da bambina, sola in un Paese straniero, aveva deciso di non stringere relazioni nel mondo del tennis: «Scelsi deliberatamente di non avvicinarmi a nessuno, non ci devono essere amici nel campo di battaglia. L’amicizia mi avrebbe resa più morbida. Avrei regalato loro un’arma per battermi».
Figuriamoci se avrebbe potuto fermarla una sentenza per doping obiettivamente troppo severa: «Il meldonium è stato incluso tra le sostanze vietate solo nel gennaio 2016, e noi atleti siamo stati informati con una mail confusa e piena di link», denuncia Sharapova, che nel libro pubblica il pronunciamento completo del giudice sportivo, che la assolve dal sospetto di aver voluto potenziare le sue performance e al contempo denuncia l’International Tennis Federation per le comunicazioni fallaci: «Sono stata sciatta nel non aprire quei link? Sì, ma questa è la mia sola colpa».
Ora è tornata, ancora più furiosa, monomaniaca e inarrestabile che mai. «Per cosa gioco?», scrive a pagina 268, «non certo per le statistiche, per la grandezza, per i soldi o per i posteri. Queste son cazzate astratte fatte per giornalisti e fan. lo lo faccio per le piccole cose. “Maria, ti ricordi che cosa ha detto di te quella ragazza, alla conferenza stampa? Ecco, falle rimangiare tutto”. Sarò sincera: io gioco solo per quello».