Il Sole 24 Ore, 18 settembre 2017
Avanza la Silicon Valley cinese
Un unicorno, finanziariamente parlando, è una start-up a proprietà privata il cui valore riconosciuto dal mercato è superiore al miliardo di dollari. Ebbene: dei 262 unicorni che si contavano nel mondo a giugno del 2016, ben 89 erano cinesi. Significa che Pechino è patria di oltre un terzo delle start-up vincenti di oggi, per un valore totale di 380 miliardi di dollari: soltanto 17 miliardi in meno dell’insieme degli unicorni di tutti gli Stati Uniti d’America.
Benvenuti nella Cina 2.0. Non più la fabbrica del mondo, ma una nuova, rampante Silicon Valley dell’Estremo oriente. Dove a scommettere sulle tecnologie più all’avanguardia sono in molti, capitanati dai giganti di Internet come Baidu, Alibaba e Tencent, e dallo stesso governo. Non basterà un semplice scudo Ue anti-acquisizioni a fermare lo sviluppo tecnologico di Pechino. La sua corsa al digitale è già ben avviata.
Nelle classifiche internazionali dell’innovazione tecnologica – come quelle della Banca Mondiale o del World Economic Forum – la Cina non supera mai la metà classifica. Ma questi indici tengono conto della media, e in Cina vivono oltre un miliardo e trecento milioni di persone. Se guardiamo ai valori assoluti, il discorso cambia di molto. A snocciolare i numeri è l’ultimo paper di McKinsey dedicato all’economia digitale made in China. Pechino non ospita solo un terzo degli unicorni mondiali. Gli investimenti del venture capital nelle nuove tecnologie ammontavano a 2,3 miliardi di dollari nel 2013 e sono balzati a quota 31 miliardi l’anno scorso: poco meno di quanto gli stessi Usa, incontestati leader di settore, hanno investito nel 2013. Segno che la rincorsa cinese è ben avviata.
Nel segmento fintech, il venture capital investito in Cina ha addirittura superato quello degli Stati Uniti (come mostra il grafico accanto), ma anche nella realtà virtuale, nelle stampanti 3d, nella robotica e persino nell’intelligenza artificiale Pechino ormai gioco un ruolo di primo piano, superiore a quello di colossi come la Germania, il Giappone e il Regno Unito. Nel campo dei droni per esempio il produttore Dji, che ha il suo quartier generale a Shenzhen, intercetta oltre il 70% di tutta la domanda mondiale, e naturalmente l’80% del suo fatturato avviene all’estero. Dji, però, non è un semplice realizzatore di prodotti: la metà dei suoi 3mila dipendenti si occupa di ricerca e sviluppo.
Chi sta fornendo alle imprese e alle start-up di Pechino il carburante finanziario per puntare a un ruolo di primo piano nella nuova economia digitale? La scommessa più grossa arriva dai tre big dell’internet cinese: Baidu, Alibaba e Tencent, che da soli sono responsabili del 42% di tutti gli investimenti del venture capital in Cina nel corso del 2016. Dall’altra parte dell’oceano, tanto per avere un termine di paragone, i quattro colossi del digitale a stelle strisce – cioè Facebook, Amazon, Google e Netflix – forniscono solo il 5% del venture capital investito negli Stati Uniti.
I tre kingmaker del digitale di Pechino non sono solo rispettivamente il re dell’e-commerce (Alibaba), dei motori di ricerca (Baidu) e dei social media (Tencent). Sono oramai un ecosistema di aziende diversificate che spaziano dal banking all’entertainment, dalla fornitura di servizi per la salute fino alle piattaforme per i trasporti (si veda anche l’articolo sotto). Niente di strano, quindi, che compaiano anche come finanziatori delle start-up per l’innovazione tecnologica del Paese. Una scommessa, questa, in cui crede molto anche lo Stato. A cominciare dal Piano triennale per lo sviluppo dell’Intelligenza artificiale lanciato da Pechino l’anno scorso, che punta allo sviluppo di un mercato da 100 miliardi di dollari. Un anno fa, inoltre, ha dato vita a un fondo statale di venture capitale con potenza di fuoco di 30 miliardi di dollari e con base a Shenzhen, dove già oggi ha sede la maggior parte delle start-up made in China.
Gli effetti di questa scommessa in casa si stanno facendo sentire anche all’estero. Da cinque anni a questa parte la Cina è diventata un esportatore netti di servizi digitali, con un surplus che spazia dai 10 ai 15 miliardi di dollari all’anno. E all’estero, naturalmente, Pechino anche investe: negli ultimi due anni i tre big cinesi di internet hanno portato a casa 35 acquisizioni nel digitale, ma Usa ed Europa non sono stati gli unici target. Alibaba, per esempio, l’anno scorso ha comprato Lazada, il più grande portale di e-commerce del Sudest asiatico. Mentre la software house Meitu per espandersi ha puntato su Brasile, India e Giappone.