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 2017  settembre 18 Lunedì calendario

Il cinismo dei mercati: quando c’è una guerra guadagnano sempre

È il cinismo dei mercati: con le guerre ci guadagnano. Nella storia è successo praticamente sempre, qualche incertezza o sbandamento all’inizio di un conflitto, e poi su. Un affare. Qualche anno fa due ricercatori della Bocconi, Massimo Guidolin ed Eliana La Ferrara, hanno analizzato 101 conflitti interni (72) e internazionali (29) verificatisi tra il 1971 e il 2004: il responso è stato che le Borse escono (quasi) sempre vittoriose, a cominciare da Wall Street. Le guerre, è il pensiero più ricorrente, stimolano la crescita economica, perchè dopo la distruzione viene la ricostruzione. Le stesse forniture belliche spingono nell’immediato molti comparti economici, non solo quello della difesa. Inoltre, una guerra mette fine a una fase di incertezza, che è il vero nemico dei mercati azionari. Poi, c’è guerra e guerra, perchè scenario, durata ed esito sono elementi importanti; nel caso della Seconda guerra mondiale, tuttora studiato nelle sue implicazioni economiche, la reazione dei mercati fu all’inizio negativa e poi molto positiva: nell’arco del conflitto, tra il 1939 e il 1945, l’indice Dow Jones guadagnò circa il 50%, con l’inversione di tendenza a metà 1940. Il giorno dell’invasione della Polonia da parte di Hitler la Borsa americana crollò di botto del 5%, perdendo poi il 23% in due settimane. Mentre dopo l’attacco alla base navale di Pearl Harbor, il 7 dicembre 1941 la giornata dell’infamia (Roosvelt) che sancì l’entrata in guerra degli Stati Uniti la reazione fu più contenuta, meno 3,5%, ma la tendenza restò negativa per alcuni mesi.
La prima guerra mondiale, un quarto di secolo indietro, si collocò invece in un periodo storico finanziariamente meno attrezzato. Infatti la crisi di liquidità fu così grave da indurre le autorità, nel 1914, a chiudere le Borse europee e poi quella americana, che restò inoperosa per sei mesi. Ma tra il 1914 e il 1918 il Dow Jones, che all’inizio del conflitto era precipitato del 30%, alla fine guadagnò il 43%. Per inciso, può essere segnalata una curiosità milanese registrata dai giornali dell’epoca: a Borsa chiusa sine die, nell’agosto del 2014, i frequentatori delle grida cominciarono a ritrovarsi regolarmente, negli stessi orari, tra le 13 e le 15, al Ristorante-birraria della Borsa, in piazza Cordusio. L’autorità di pubblica sicurezza vietò quelle riunioni nella convizione che fra una discussione sulla guerra e una chiacchierata sui corsi della Borsa di Parigi, la quale continuava a funzionare potesse aver luogo qualche contrattazione. Protraendosi, nonostante i divieti, quest’abitudine, un bel giorno i frequentatori furono prelevati e condotti in questura.
Anche la guerra di Corea del 1950-53 confermò la tesi corrente, e cioè guerra uguale affare: nei tre anni l’indice della borsa americana crebbe del 60%, un record. È ancora oggi proprio la Corea del Nord a tenere in fibrillazione il mondo. Per il momento è occasione di speculazione, nemmeno troppo spinta, ma se lo scenario dovesse aggravarsi con l’esplosione di un conflitto (cosa ritenuta improbabile dalla maggioranza degli esperti) si vedrà.
La guerra di Corea detiene il record dei progressi di Borsa in un arco pluriennale. Tutte le altre grandi crisi hanno portato meno guadagni agli investitori cinici e coraggiosi. Nelle due settimane della crisi di Cuba, nel 1962, quando fu sfiorata la terza guerra mondiale, il Dow Jones si mantenne composto, perdendo solo l’1,2%. Da ottobre a dicembre balzò invece del 10%. L’anno dopo, l’omicidio di Kennedy fu registrato dai listini con un meno 4,5%, ma nei dodici mesi successivi il progresso fu del 15%. La Guerra del Golfo (1990) fu invece, tra tutti i conflitti, quello che affossò in maniera più permanente i listini, meno 20%: ma il calo si combinò, secondo gli studiosi, con la recessione di quell’inizio decennio. Mentre il 15% con cui le Borse accolsero l’attentato alle Torri gemelle fu recuperato nel giro di qualche mese: si può dire che è il modo con cui la finanza esorcizza una tragedia. La Guerra in Iraq del 2003 fu accolta subito in denaro, per usare il linguaggio di Borsa: più 2,3% allo scoppio del conflitto, più 30% un anno dopo.
Le Borse, in caso di conflitti o di crisi geopolitiche, vedono premiati soprattutto i titoli industriali legati ai sistemi di difesa, alla meccanica, alla siderurgia, all’elettronica, alla farmaceutica e via dicendo. Ma per gli investitori sono importanti anche le materie prime, che reagiscono in maniera diversa anche secondo l’area geografica che si surriscalda: conflitti in Medio Oriente si riflettono immediatamente sul prezzo del petrolio. E, ovviamente, c’è l’oro, il re dei beni rifugio: anch’esso è sottoposto a oscillazioni e stress, ma non ha mai tradito nessuno.