la Repubblica, 17 settembre 2017
Italo Zannier
Ora che la fotografia si è trasformata nel più potente strumento del nostro ego non sarebbe male desiderare di fare un passo indietro, magari con una guida, Italo Zannier ineccepibile storico della fotografia. Ho letto, con la giusta devozione che si deve al grande, il suo nuovo libro La lanterna della fotografia (La Nave di Teseo), dove in meno di cento pagine si abbozza il destino di un’arte che ha cambiato il mondo: «Si è passati», dice Zannier, «dall’invisibile all’anonimo, da chi davvero era permeato di indole sperimentale a chi oggi riduce il gesto del fotografare al più dozzinale dei comportamenti sociali». Verrebbe da pensare, parafrasando un detto assai noto, che la madre della fotografia è sempre incinta: «È un’illusione quella che vorrebbe un mondo abitato da fotografi, la verità è che nella sua proliferazione virale, la fotografia sta costruendo un pianeta della memoria propaggine tumorale di quello in cui viviamo». È un giudizio duro, sconfortante, ma preciso quello formulato da Zannier che vado a trovare a Venezia, nel sua casa alla Giudecca. È un uomo elegante, magro, morbidamente ironico. Una seconda moglie, americana, che disegna cachemire per la moda, tre figli tra cui un maschio che insegna Teoria dei Numeri alla Normale di Pisa ed è considerato l’erede di Enrico Bombieri.
Ha una bella famiglia.
«Degli altri due figli uno fa l’architetto e la femmina vive a Barcellona e insegna italiano. Sarei tentato di monumentalizzarla, intendo la famiglia. Ma poi penso che la felicità è per tutte la stessa, tinta da una certa ovvietà. Mentre l’infelicità, ciascuna come direbbe Tolstoj la vive a modo proprio».
E questo vale anche per la fotografia?
«L’estrema democratizzazione del gesto ha reso tutti felici e egualmente inconsapevoli. Un tempo non era così. Un tempo la fotografia era innanzitutto un linguaggio preciso e inconfondibile. Non qualcosa di residuale o di secondario. Ma di eroico e sorprendente».
Che cosa intende?
«Intendo un eroismo che, per le sue basse pretese di riuscita, per le sue oscure radici, può davvero stupirci. Non c’è alcun dubbio che la nascita della fotografia fu un atto solitario e disperato. Tipico di quegli inventori che non avevano idea in che cosa si erano infilati. Gente la cui pretesa somma era di impadronirsi del vero, restituirlo nella sua esatta riproducibilità. Ma la storia della fotografia ha finito col dire tutt’altro. È come i nostri padri: vorrebbero riprodursi in noi, rinascere. Ma alla fine ciascuno va per proprio conto».
Il suo dove è andato?
«È morto che aveva ottantatré anni, sembrava uscito da un racconto mitteleuropeo. Durante gli anni dell’Impero svolse il suo lavoro di esattore delle tasse. A sentire mia madre, che era maestra, fu un uomo giusto. E non ho motivo per non crederle. Ma questo non bastò a metterlo del tutto al riparo».
Cosa accadde?
«Una volta uccisero il suo messo esattoriale, poi lo spalmarono di pece e paprica per non farlo ritrovare dai cani. Non si seppe mai se fu per vendetta o per derubarlo. Fu un delitto orrendo. Un’altra volta, esattamente l’8 settembre del 1943, a Circhina, oggi Slovenia, dove vivevamo accadde l’irreparabile per la mia famiglia. I soldati italiani che erano lì di stanza abbandonarono quei luoghi e noi con loro. Come profughi ci allontanammo dalle truppe di Tito che occupadi rono la città e saccheggiarono la nostra casa. La depredarono di ogni cosa. Poi aprirono la cassaforte che era negli uffici e bruciarono tutti i documenti che vi trovarono dentro. Sembravano dei forsennati. Dicevano che il comunismo avrebbe liberato il popolo dalle tasse!».
Dove riparaste?
«Facemmo un giro immenso e alla fine giungemmo su un carro a Spilimbergo, dove per altro io ero nato. Lì trascorsi gli anni dopo la guerra. Educazione dai salesiani a Gorizia, liceo a Udine infine l’università di architettura a Venezia. Ebbi la fortuna di incontrare Bruno Zevi».
Fortuna perché?
«Oltre a essere un maestro, poco ideologico e attento ai diritti civili, mostrò interesse per le mie foto. Ero agli inizi. Mi chiese se avevo voglia di andare a Vienna per fotografare le architetture di Adolf Loos. Partii con Elio Bartolini, che considero il miglior scrittore friulano, più di Sgorlon. Preparai quel servizio e, con mia grande sorpresa, vinsi il premio “Città di Gorizia”, a pari merito con Fulvio Roiter. Lui poi avrebbe vinto il ben più prestigioso Nadar».
Roiter era veneziano.
«Era nato nella provincia veneziana, ma l’amore per Venezia lo ha mostrato attraverso una poetica documentaria straordinaria. Il suo idealismo fotografico contribuì al grande successo».
Lo dice come fosse un limite.
«Roiter seppe estrarre tutto il gradevole e il bello dalla fotografia. I maligni definirono “cartolinesca” la sua produzione. Un’accusa che non condivido. Anche se, volendo cercare il sublime, ho condiviso le scelte di Mario Giacomelli».
Condiviso perché?
«All’intenzione di realizzare la bella foto, Giacomelli preferì l’ironia e la concretezza di un sublime basso e spiazzante. Anche nelle immagini più rarefatte o astratte – penso ai suoi paesaggi marchigiani – Mario conservò un senso profondo del terrestre e del religioso. Cominciò il suo lavoro nei primi anni Cinquanta liberandosi quasi subito dalla patina zavattiniana che allora dettava la linea del neorealismo. Fui io, in un certo senso, a scoprirlo».
In che modo?
«Ho ancora nel mio archivio un suo biglietto datato mi pare 1953 o ’ 54: “Sono Mario Giacomelli, giovane fotografo di Senigallia, mi dedico alla fotografia e vorrei un suo giudizio”. Aveva allegato delle foto che mi parvero notevoli, quanto meno nel tentativo di sperimentare una nuova immagine che superasse il ricatto del reale. Credo sia stato proprio questo “strappo” a fare di Mario il primo fotografo italiano apprezzato a livello internazionale».
Per ricatto del reale intende la sottomissione a quello che si vede?
«È un equivoco pensare che la macchina restituisca il reale. Le foto che Giacomelli realizzò su Scanno, un paesino dell’Abruzzo contadino, congelato nella storia, non avevano niente del grido edulcorato del neorealismo. Tanto è vero che John Szarkowski, direttore del dipartimento di fotografia del MoMA, se ne accorse e volle prima esporre e poi acquistare quelle foto. Ricordo la faccia stupita di Giacomelli».
Di che anni parliamo?
«I primi anni Sessanta. Mario aveva una vecchia macchina rattoppata e per vivere lavorava come tipografo. Quando fece un po’ di soldi rilevò un campeggio. Passò gli ultimi mesi della sua vita a letto, per colpa di un tumore. Ma trovava ancora la forza di alzarsi e di farsi accompagnare su quel luogo balneare dove aveva impiantato la vendita delle sue fotografie. È stato un grande senza la minima consapevolezza di esserlo».
Questa storia del “reale” in fotografia mi incuriosisce. Parla di equivoco, di ricatto, di fraintendimento. Immagino che avrà dei nomi su cui rigettare l’accusa.
«Prima di fare dei nomi dico che da sessant’anni insisto sul fatto che la fotografia è un problema di linguaggio non di vero. Invece è passata la convinzione, del tutto illusoria, che la fotografia sia documentazione del reale. Gli storici dell’arte che ho frequentato e ai quali dicevo: beh trovate un modo per occuparvi anche della fotografia, perché è un mezzo che ha cambiato la nostra maniera di vedere, mi rispondevano che non avevano tempo e che, dopotutto, essendo una banalissima copia del reale, non occorreva metterci le mani».
Lei sostiene, insomma, che il reale fotografico è un’illusione?
«Lo è a tal punto che oggi, nel massimo della sua espansione, il reale fotografico è diventata un’illusione di massa. Tutti vogliono documentare! Ma questa tendenza è, più o meno, la prosecuzione di un modo di intendere la fotografia come ineccepibile testimonianza del quotidiano.
Mi chiedeva dei nomi?».
Sì.
«Robert Capa e Henri Cartier- Bresson, per farne due che tutti possono riconoscere e con i quali legioni di imitatori si sono riconosciuti».
Beh, nei rispettivi campi d’azione, sono stati dei maestri.
«Non discuto della loro valentia e fascino. Ma prendiamo Capa. Ho conosciuto il fratello e perfino la mamma e per me Robert è stato un mito. Lo dico senza un briciolo di ironia. Ma non era un grande fotografo. Bravo, sì. Coraggioso, bello, risoluto. Ma l’eroismo è una cosa differente dalla fotografia. Fu Werner Bischof a dargli il senso estetico. E tutti e due, anzi tutti e tre, compreso Cartier-Bresson, facevano parte del gruppo Magnum».
Lo avevano creato.
«Certo, e fu un’idea geniale. Perché la Magnum è diventata il mito fondativo della cosiddetta fotografia autentica».
Cartier-Bresson sarebbe stato grande a prescindere dall’agenzia.
«È molto probabile, ma è la Magnum che ha creato il mito di sé stessa e dei suoi adepti. Ha dettato il canone della fotografia».
Con quali conseguenze?
«Si è diffusa la retorica dell’attimo: pensi al “miliziano morente”, che non si sa neppure se sia vero o no; ma anche al virtuosismo di Cartier- Bresson che strappa l’applauso e teorizza la fotografia come istantanea di strada, un misto di descrizione dei fatti e di vibrazione emotiva. Per me il più grande fotografo di quegli anni è William Klein. Il suo libro del 1956 su New York fu un capolavoro di silenzio. Non c’era una parola, non una didascalia eppure mostrava una città come nessuno l’aveva mai vista. Warhol, qualche anno dopo, fece solo lo sforzo di copiarlo».
Perché attribuisce così tanta importanza al linguaggio della fotografia?
«È l’emblema del mondo moderno. Con il 1839, formalmente la sua data di nascita, ha origine l’epoca dell’iconismo».
Cosa cambia?
«Il fotografo deve pensare per immagini, non fare letteratura e, soprattutto, la fotografia non deve essere descritta come fosse un racconto filosofico. Basta con le citazioni da Walter Benjamin, da Susan Sontag o da Roland Barthes. Non ho niente contro quelle superbe intelligenze. Ma i loro nipotini hanno fatto parecchi danni, impedendo che la fotografia fosse vista partendo da sé stessa».
È per questo che ha creato un barattolo con sopra scritto “pipì di fotografo”?
«Dopo la “merda d’artista” ho scagliato la mia modesta provocazione contro chi specula sulla fotografia senza conoscerla».
Come storico ha apprezzato il lavoro di Ugo Mulas?
«Non avrei potuto prescinderne anche se il suo ambiente milanese è diverso dal mio che è più veneziano. A mitizzarlo non fu la Magnum ma il bar Jamaica».
E di Luigi Ghirri cosa pensa?
«Fui suo amico: era una persona amabile e un intellettuale della fotografia. Mi disse che tra le persone che lo avevano affascinato c’era Walker Evans».
Un fotografo molto dedito al sociale.
«È vero e fu notevole il suo viaggio nell’America della grande crisi o il lavoro che dedicò ai viaggiatori della metropolitana di New York. Ma Evans non documentava, semplicemente. Era un artista di testa come lo fu Ghirri con i suoi paesaggi e le nebbie».
Chi sono oggi i grandi fotografi italiani?
Abbiamo una tradizione interessante. Gianni Berengo Gardin, Mimmo Jodice, Uliano Lucas, Ferdinando Scianna, Mario Dondero per non parlare di Lisetta Carmi. Li indico in ordine sparso. E ciascuno a suo modo ha esplorato zone interessanti della vita. Ma le vere novità di questi anni per me sono Paolo Gioli e Guido Guidi».
Perché ha deciso di lasciare la fotografia attiva per quella storica?
«Mi sembrava ingiusto che fosse considerata un’arte di serie B. Andava contrastata la celebre sentenza con cui Baudelaire definì il fotografo un pittore mancato. E poi la fotografia in Italia non è mai stata presa sul serio, come invece è accaduto in Francia, in Inghilterra e in Germania. Eppure, abbiamo avuto personaggi straordinari. Mi pareva giusto tentare di farli conoscere».
Con un prima e un dopo l’avvento del digitale?
«Qualcosa sta cambiando in profondità. Non ne percepiamo ancora gli effetti. Ma saranno imprevedibili».
Come vi si atteggerà uno storico?
«Vorrà capire dove conducono le nuove tracce. A ottantacinque anni non so se ne avrò la forza. Ogni volta che scrivo penso che quello sia l’ultimo libro, l’ultimo articolo, l’ultima parola. Di me dicono che sono narciso ed egocentrico. La verità è che ho solo una passione malsana per la fotografia. È tutto il mio mondo. La mia ossessione. Che a volte vivo con tenerezza e altre con rabbia».
Rabbia perché?
«La rabbia è per la vita ciò che l’onda è per il mare. Senza ci sarebbe solo stasi o palude».