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 2017  settembre 17 Domenica calendario

La seconda lingua fa bene al cervello

TRIESTE C’è posto per tutti. Nella testa di un cucciolo d’uomo esistono spazio e meccanismi per imparare più lingue, senza controindicazioni. Se nel mondo il 65% dei bambini è bilingue, in Italia non si arriva alla metà, e solo nelle realtà più multiculturali. Una ricchezza per il cervello, una sfida per la società, il bilinguismo è stato spiegato da neurologi, pediatri, maestri e psicologi nel convegno “Fin da piccoli. Le seconde lingue nei primi anni di vita”, organizzato ieri a Trieste dal Centro per la Salute del Bambino (Csb), che da 17 anni porta avanti il progetto “Nati per leggere” per introdurre la lettura (sulle ginocchia di mamma o papà) anche nei primi mesi di vita.
«Conoscere due lingue è un vantaggio per tutta la vita. Nei primi anni migliora le capacità cognitive, tanto che a scuola si ottengono risultati migliori. Da anziani abbassa il rischio di Alzheimer» spiega Amanda Saksida, linguista della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati di Trieste. I dialetti da questo punto di vista sono come un idioma diverso. «Un neonato riconosce già la lingua madre, l’ha ascoltata nel pancione. E se le lingue madri sono due, riconoscerà entrambe. All’inizio l’arricchimento del vocabolario sarà più lento. Ci saranno fenomeni di interferenza. All’esposizione improvvisa a un nuovo idioma il bambino può reagire con un periodo di silenzio. Ma nel giro di pochi anni tutti i tasselli andranno a posto».
Il multilinguismo in Italia è però una medaglia a due facce. La prima è quella dei bimbi italiani che studiano l’inglese. «Prima si inizia, più facile sarà» spiega Anduena Alushaj del Csb. La plasticità del cervello diminuisce col tempo e l’apprendimento a sei anni, in gergo tecnico, viene già definito tardivo. «L’importante è che la pronuncia sia corretta. Se i genitori parlano lingue diverse, ognuno dovrebbe parlare la sua. Tv e cartoni vanno bene, ma con i genitori accanto. Importante è la continuità: un corso di una sola ora a settimana non l’ideale».
Poi ci sono i bambini stranieri appena arrivati o abituati a parlare in famiglia una lingua straniera. E qui gli aspetti sociali balzano in primo piano. «Lavoro a Barriera Vecchia, una zona antica di Trieste. Fra i miei bambini ormai uno su tre è straniero» racconta Paola Materassi, pediatra. «Conosco una nonna cinese che impedisce alla nipote di parlare italiano». Monica Castagnetti è psicopedagoga, alla scuola Palmieri, periferia di Milano. Qui l’italiano è minoranza. La scuola dell’infanzia (ex materna) ha 88 alunni, di cui 63 stranieri e 11 appena arrivati. «Quando è nata, 99 anni fa, la Palmieri insegnava italiano ai bambini del sud. Oggi fa lo stesso con gli stranieri che vengono dall’Asia o dall’Africa».
Se imparare le lingue da bambini fa bene e se in Italia vivono tanti bambini immigrati, la logica vorrebbe che questo “mondo di bimbi” (come lo chiama Castagnetti) si incontri. Ma da questo orecchio si fatica a sentire. «Gli italiani preferiscono mandare i figli in una scuola lontana, se quella vicina ha molti immigrati» interviene una maestra di Mestre. «Io chiedo ai genitori di venire a scuola a leggere un libro o cantare una canzone. I figli sono orgogliosi, gli italiani conoscono una cultura diversa». E nel fai-da-te della scuola multilingue, la maestra di un nido racconta: «Ho chiesto ai genitori stranieri di scrivermi semplici frasi o ninne nanne per consolare il bimbo». Alcune madri si sentono in colpa se continuano a parlare la madrelingua. «Ma così distruggono quella ricchezza che è la cultura d’origine» discute una pediatra.
Se il cervello del bambino è pronto a imparare le lingue, insomma, non sempre è lo stesso per la società. «Nella prima parte del ‘900, nell’epoca dei nazionalismi, si pensava che il bilinguismo nuocesse al cervello» spiega Giorgio Tamburlini, pediatra e presidente del Csb. «Oggi dobbiamo liberarci dalle incrostazioni ideologiche e diffondere il messaggio che ci arriva dalla ricerca: più lingue equivalgono a più cultura, più identità, più comprensione degli altri. Sia per i bambini che viaggiano sia per quelli che accolgono».