la Repubblica, 18 settembre 2017
Dove i ghiacci resistono
KANGERLUSSUAQ ( GROENLANDIA) La solitudine si direbbe non esista più, se il rombo di un aereo, partito dal Canada e diretto chissà dove in Europa, ti sveglia alle due del mattino. Ma se così è in cielo, non altrettanto accade quaggiù, nel gelo dell’immensità ghiacciata della Groenlandia, in un punto imprecisato poco sopra i 67° di latitudine nord. Tocca alzarsi nonostante i trenta gradi sottozero, fondere sul fornello la neve per l’acqua che ci servirà durante il giorno, smontare le tende e impacchettare i nostri bagagli sulle slitte. Poi via nella bufera, salendo lentamente i pendii di neve e ghiaccio dell’“inlandsis”.
Stiamo spingendo gli sci da oltre dieci giorni, partiti dal fiordo che presso Isortoq si inoltra fino a sfiorare la calotta glaciale, la più imponente riserva d’acqua (gelata) della Terra dopo l’Antartide. La meta è Kangerlussuaq, sull’altro lato dell’isola più grande del mondo. Dalla costa est a quella ovest sul far dell’autunno come il primo che c’è riuscito, nel 1888. Ventisei anni, appena laureato in zoologia e sul punto di diventare direttore del museo di Bergen, il norvegese Fridtjof Nansen cercava l’impresa ma anche la dimostrazione che gli sci, da sempre usati per la caccia nei boschi di casa, potevano essere la soluzione vincente per un viaggio d’avventura di quasi cinquecento chilometri, oltre a voler documentare gli effetti della piccola era glaciale che si stava per concludere. Ci riuscì e l’enorme altopiano ghiacciato groenlandese divenne un nuovo terreno di gioco per gli appassionati di montagna. Oggi si cimenta nella traversata con gli sci una cinquantina di persone l’anno, dalla Scandinavia soprattutto, e principalmente norvegesi, poi tedeschi, britannici e canadesi, pochissimi italiani. L’itinerario si affronta in maggio da ovest a est, con giornate più lunghe e relativamente temperate, l’inverso tra agosto e settembre, sulle tracce di Nansen, quando le bufere della stagione fredda cominciano a imperversare.
L’allenamento è lungo. Corsa, salite in montagna, traino di pneumatici per abituare la schiena a sopportare due slitte del peso totale di una settantina di chili: 35 solo il cibo, liofilizzato e no, carne secca di renna compresa e una bottiglia di cognac a rendere meno dura la notte. Il burro è una buona riserva di grassi ma serve anche a sostituire egregiamente la sciolina, quando la neve comincia ad attaccarsi agli sci. A organizzare la spedizione è l’agenzia norvegese di Børge Ousland, uno che s’è fatto da solo l’Antartide coast-to-coast ed è arrivato, sempre senza compagni, al Polo Nord. Poi c’è tornato nel 2006 con Mike Horn nella notte invernale, un’impresa che si è meritata la copertina del National Geographic. Assieme a lui lavora un team di guide artiche dai curriculum impressionanti e ad accompagnarci sono Bård Helge Strand e Sindre Sivertsen. Il primo si fa la traversata per la quarta volta in due anni e tra i prossimi progetti ha il Polo Sud, dopo essere stato sei mesi con l’esercito della Nato a Kabul, giusto per capire che la vita da soldato non faceva per lui. Per il secondo è il debutto sull’isola ghiacciata. La spedizione comprende tre tedeschi, Thomas Kober, Beate e Martin Klein, e una norvegese, Grete Karis. L’intento è quello di portare a termine un’avventura che da anni affascina per ragioni diverse ognuno di noi. Ma c’è una curiosità in più. Il National Snow and Ice Data Center (Nsidc) dell’Università americana della Georgia, uno dei più accreditati centri di ricerca sulle aree polari e subpolari, dallo scorso giugno sta pubblicando rilievi satellitari sorprendenti: un periodo di fusione dei ghiacci lento, a differenza di quel che si è letto per altre zone fredde, dopo una primavera ricca di neve.
La nostra traversata lo ha confermato in maniera empirica. Il timore di imbattersi in impetuosi torrenti di fusione e laghi glaciali – che Bård racconta di aver trovato in quantità nel suo “Greenland crossing” dell’autunno 2016 – si rivela infondato. L’acqua è gelata in profondità e solo alle quote più basse lo strato di ghiaccio cede sotto gli sci e ci regala poco graditi pediluvi. Nei rari giorni di sole il termometro sale a meno venti e le bufere aggiungono altra neve a quella già caduta. La notte teniamo acceso il fornello, dentro la tenda, per strappare un’illusione di calore ai 30-35 gradi sottozero. È la prova di quel che scrive al nostro ritorno Thomas Mote, scienziato del Nsidc: «La riduzione della fusione e la copiosa nevicata della primavera possono determinare un aumento netto della massa di ghiaccio della Groenlandia per la prima volta in questo secolo». Freddo nelle ossa a parte, potremmo aver vissuto un avvenimento storico.
Un viaggio senza grandi problemi, fatica a parte. Niente orsi polari – ma i fucili erano pronti sulla slitta – e incontri inaspettati solo con qualche zigolo delle nevi, piccoli volatili in cui già Nansen si era imbattuto, che volano stretti in piccoli stormi, quasi a volersi scaldare, a centinaia di chilometri dalla costa.
Ce la facciamo in ventotto giorni ad arrivare a Kangerlussuaq, 550 chilometri più a ovest, giusto in tempo per non cambiare il biglietto aereo. Due ultimi desideri, quando finalmente togliamo gli sci: la doccia più calda e lunga mai fatta e un’insalata fresca, la più grande mai affrontata.