La Lettura, 17 settembre 2017
L’ambigua ascesa delle città-Stato
Parag Khanna, politologo indiano di successo che si autodefinisce leading global strategist, torna alla carica. E lo fa con un pamphlet che nell’edizione originale è intitolato Technocracy in America, ma che da noi assume un’altra e più generale etichetta ( La rinascita delle città-Stato, Fazi), appunto in omaggio al presunto valore globale dell’analisi ad esso affidata. Diciamolo subito: l’unico autentico sostegno di quest’ultima consiste nell’attuale sfacelo del funzionamento del mondo, a partire dai guasti del sistema democratico.
Al riguardo la diagnosi di Khanna non perdona. Oggi la politica, scrive, non ha più l’orizzonte della persuasione, ridotta com’è a una pratica di scambio tra interessi particolari. L’America è un’oligarchia, governata da un’élite avida e corrotta, e non una democrazia, bensì da quella che Lawrence Lessig chiama «finanzocrazia». La rete sotterranea che unisce i professionisti della finanza e dell’industria militare che operano a Washington è diventata (l’espressione è di Mike Lofgren, un veterano dell’analisi parlamentare) «l’istituzione più complessa che il mondo abbia mai visto», capace di manipolare i legislatori e anche di superarli in termini di influenza e libertà d’azione. E tale deep State, questo Stato ancora più profondo dello Stato stesso perché sotterraneo, potrebbe addirittura tra non molto perdere ogni interesse per il Congresso, scavalcandolo completamente. Insomma: la democrazia rappresentativa è diventata, almeno negli Stati Uniti, una forma di gioco al ribasso in cui governare è meno importante che impedire all’avversario di farlo.
Francis Fukuyama si è chiesto se il sistema americano non abbia bisogno di uno «shock all’ordine politico» per sottrarsi all’attuale spirale discendente e tornare a concentrarsi sulle prestazioni anziché appunto sulla politica. Per Khanna l’elezione di Donald Trump può rappresentare proprio uno shock di questo tipo, e il simultaneo controllo repubblicano di Casa Bianca, Camera e Senato potrebbe preludere a una tirannia cui nessun meccanismo di pesi e contrappesi sarebbe in grado di porre rimedio. D’altronde: non aveva già Platone individuato nella democrazia la penultima fase della degenerazione dei regimi politici, anticamera della finale tirannia?
Così per Khanna non vi sono dubbi: alla democrazia va sostituita la tecnocrazia diretta orientata dai dati digitali, che è in grado di cogliere dinamicamente i desideri dei cittadini, annullando nello stesso tempo la distorsione indotta dalla rappresentanza degli eletti, e il corto circuito tra interessi particolari e corruzione dei mediatori. È questa la «devoluzione» che compare nel sottotitolo dell’edizione italiana, termine che fino a qualche tempo fa indicava il trasferimento della potestà territoriale da un soggetto a un altro, e che qui vale invece a indicare, al tempo della smaterializzazione dei processi, il passaggio dal regime democratico alla forma più tecnologica e assoluta di governo, vale a dire alla fine delle elezioni politiche. Per proteggere la città dalla degenerazione Platone suggeriva di combinare la democrazia con l’aristocrazia, invocava un comitato di Guardiani animati da spirito pubblico. I Guardiani della nostra epoca, anzi della prossima, dovrebbero essere appunto i tecnocrati, nel senso che la «vera tecnocrazia ha la virtù di essere sia utilitarista (nel senso di cercare inclusivamente il massimo vantaggio per la società) che meritocratica (dotata di leader molto qualificati e non corrotti)».
La «vera tecnocrazia». Se Khanna avesse letto L’uomo senza qualità di Musil avrebbe forse esitato nel ricorrere a tale espressione, memore di quel che «la vera Austria» significa nel romanzo: qualcosa di inesistente, a cui ci si può riferire soltanto in termini tragicamente illusori. Ma la letteratura sulla globalizzazione non conosce tali finezze, e bisogna farci i conti per quello che è. Un regime tecnocratico significa per Khanna un approccio rigoroso all’amministrazione, l’assenza di dibattiti astratti, l’equivalenza di cifre e democrazia nella messa a punto delle strategie statali, un ricorso nel complesso temperato alle consultazioni elettroniche dal basso. Esso implica perciò una nuova forma ideale di Stato, l’info-Stato, ed è qui che la vecchia città-Stato di classica memoria (almeno per noi europei) torna a galla, nel senso che le ridotte dimensioni consentono il più efficace adattamento delle infrastrutture materiali e immateriali alla continua innovazione cui è chiamata.
I campioni sono due: la Svizzera e soprattutto Singapore. Come ha scritto Thomas Friedman: «Singapore non è una democrazia in senso pieno, ma i suoi leader si chiedono tutti i giorni come rendere migliore il Paese. Se le istituzioni tengono e il governo è percepito come giusto, allora la democrazia diventa un optional». E in effetti il fondatore della Repubblica, Lee Kuan Yew (1923-2015), ha impostato la pianificazione strategica sul modello di una multinazionale di successo come la Royal Dutch Shell, abile nell’elaborazione di scenari multidisciplinari e a lungo termine, in grado di incrociare le tendenze dominanti nei settori della tecnologia, della geopolitica, dell’energia. In tal modo Singapore è, adesso, «la ditta meglio amministrata al mondo».
Anche Khanna però, che vive a Singapore, tace il costo iniziale dell’impresa, quel che è stato necessario perché l’amministrazione fosse efficace e la tecnocrazia potesse affermarsi. Lee, che per un quarantennio è stato il padre padrone della città, non ha invece avuto nessun problema a dichiararlo: «Ogni volta che qualcuno ha voluto dar principio a qualcosa che potesse turbare la mia ordinata, organizzata, sensibile, razionale società, e renderla emotiva e irrazionale, l’ho fermato».
Come forma di saggia pratica tecnocratica orientata al bene comune non c’è male. La tecnocrazia si regge anche per Khanna sulla meritocrazia, come si è visto, e viene in mente l’antica storiella del saggio indiano che spiega che la Terra è immobile perché sorretta da una tartaruga, ma non sa rispondere alla successiva domanda su che cosa la tartaruga si regga. Il termine «meritocrazia» fu inventato, in senso polemico, nel 1958 da Michael Young, un sociologo ed economista laburista inglese che dedicò la vita allo studio e alla promozione di un piano di riforme pensato per garantire maggiore equità di accesso al sistema dei servizi pubblici e all’istruzione, specie per le comunità non di madrelingua inglese. All’origine «meritocrazia» segnalava il rischio che una rigida applicazione del principio meritocratico generasse una società ancora più afflitta dal problema delle ineguaglianze. Dopotutto, per Young, gli uomini «si distinguono non per l’uguaglianza ma per l’ineguaglianza delle doti. Se valutassimo le persone non solo per l’intelligenza o l’efficienza, ma anche per il coraggio, la fantasia, la sensibilità e la generosità, chi si sentirebbe più di sostenere che lo scienziato è superiore al facchino che ha ammirevoli qualità di padre, o che l’impiegato efficiente è superiore al camionista bravo a far crescere rose?».