La Lettura, 17 settembre 2017
La rivolta delle piccola patrie ricche
Referendum consultivo sull’autonomia in Lombardia e Veneto (22 ottobre). Possibile referendum in Catalogna per un’eventuale secessione dalla Spagna. Nuova consultazione sull’indipendenza della Scozia collegata alla Brexit. Persino in Belgio la scissione completa tra Fiandre e Vallonia si sta affacciando in modo esplicito nel dibattito politico. Il rischio di disgregazione non riguarda più soltanto l’Unione Europea, ma sembra minacciare anche gli Stati nazionali. Un salto all’indietro di qualche secolo? Un ritorno allo spezzatino territoriale che emerse con il declino del Sacro Romano Impero?
Qualcuno ci crede veramente. Nell’Unione Europea sono oggi attive quasi cinquanta formazioni autonomiste o separatiste. Fanno tutte parte dell’Alleanza per la Libertà, i cui rappresentanti siedono nel Parlamento dell’Ue. Sul sito dell’Alleanza compare una mappa che ridisegna il continente secondo le aspirazioni dei suoi membri. Resuscitano alcuni Stati un tempo indipendenti: non solo Scozia e Catalogna, ma anche Baviera e Savoia. Riemergono confini carichi di valore simbolico, come quelli dei regni moreschi-musulmani nel Sud della Spagna. Compaiono poi varie piccole regioni che un tempo possedevano una qualche identità territoriale, poi disciolta nei più ampi calderoni nazionali: Bretagna, Cornovaglia, Frisia, Moravia, Alsazia. Nel suo complesso, si tratta di una topografia che ricalca in misura sorprendente le mappe del XIV secolo, prima che prendesse avvio il processo di formazione degli Stati nazionali.
Molti movimenti indipendentisti rappresentano sparute minoranze, mosse da utopiche nostalgie per passati che non possono tornare e spesso da valori e obiettivi dichiaratamente xenofobi. I partiti più forti e importanti riflettono la presenza di differenze linguistiche o religiose all’interno dei loro Paesi. Le formazioni più attive, sia a livello europeo sia nazionale, sono però quelle insediate in territori ricchi. Qui alle motivazioni storiche, politiche o culturali si aggiunge la convenienza economica. Per queste regioni, diventare autonome significherebbe sottrarsi all’obbligo di contribuire al bilancio nazionale e di redistribuire una parte del proprio gettito verso le aree più povere. È quanto affermano in modo esplicito i partiti autonomisti di Catalogna, Fiandre, Lombardia, Veneto. Ma il tema della redistribuzione territoriale delle risorse è diventato sempre più controverso anche in Germania, Austria e persino nei Paesi nordici (dove pure non ci sono partiti indipendentisti).
Che cosa spiega questi sviluppi? È fuorviante e riduttivo interpretarli solo in chiave di «egoismo» (cattivo) contro «solidarietà» (buona). Essi vanno piuttosto collocati nel più ampio quadro delle trasformazioni europee dell’ultimo trentennio, e in particolare della crescente apertura dei sistemi nazionali. Fino agli anni Settanta, le economie dei Paesi europei funzionavano essenzialmente come «scatole nere», legate le une alle altre attraverso i tassi di cambio. Ciò che succedeva all’interno era affare «privato». I territori sub-nazionali non erano direttamente o autonomamente esposti alla competizione esterna. I confini e le politiche statali fungevano da barriera e filtro. Il bilancio pubblico si prendeva cura delle disparità e degli squilibri regionali interni alla scatola nera, utilizzando un ampio ventaglio di strumenti che in qualche modo conciliavano le esigenze delle regioni ricche con i bisogni di quelle povere.
Con il procedere dell’integrazione, i territori si sono trovati in una situazione completamente differente. La rimozione dei confini ha creato opportunità e rischi inediti per gli scambi transfrontalieri, non più mediati dai regimi regolativi nazionali e da tassi di cambio flessibili. Le regioni hanno dovuto imparare a essere più competitive, sfruttando al meglio le proprie risorse e i propri vantaggi comparativi. Lo sviluppo regionale dipende sempre di più dalla «qualità» complessiva dell’area, fattore cruciale non solo per esportare, ma anche per attrarre preziose risorse esterne. Per promuovere e sostenere la qualità occorrono però fondi pubblici per finanziare specifiche politiche pubbliche nei settori dell’istruzione, della formazione, del sostegno alla ricerca e all’innovazione e così via. Risorse che ci sarebbero (in misura maggiore) se vi fosse autonomia (o addirittura indipendenza) fiscale. Dal tradizionale modello delle solidarietà nazionali inclusive si sta così passando al modello delle solidarietà regionali competitive, gelose delle proprie basi imponibili e desiderose di poterle gestire senza vincoli statali e redistribuzioni esterne.
Negli ultimi tre decenni questi processi hanno creato nuove comunanze di interessi intersettoriali e soprattutto interterritoriali. Sono così riemerse vecchie fratture fra centri e periferie di produzione e di commercio. Pensiamo al massiccio revival dell’antico asse di traffici tra Pianura Padana, Reno, Fiandre e Mare del Nord, che tanta parte ha già avuto nella storia economica e politica europea. Ma sono anche nate aggregazioni inedite, ad esempio sull’asse orizzontale Catalogna-Carinzia (via Midi, Pianura Padana, Svizzera e Baviera), con propaggini mitteleuropee. Il completamento dell’Unione economica e monetaria ha dato enorme impulso agli scambi fra queste aree e dunque alla condivisione di interessi (infrastrutture, trasporti, sinergie fra sistemi produttivi, mercati del lavoro) e anche alle prime sperimentazioni di forme di protezione sociale trans-regionali (peraltro favorite e cofinanziate dalla Ue). Il rovescio della medaglia è stata la crescente insofferenza nei confronti di «dispersioni» di risorse verso le aree meno favorite.
La nuova fase di austerità fiscale e vincoli di bilancio ha esasperato le tensioni fra territori, mettendo in crisi le politiche di sostegno economico-sociale e di promozione dello sviluppo regionale da parte degli Stati nazionali, soprattutto quelli con maggiori disparità territoriali (Spagna, Germania dopo l’unificazione, Italia; più di recente anche Polonia o Romania). Il malumore dei «ricchi» è stato intercettato, cavalcato e a volte deliberatamente costruito da nuovi imprenditori politici, che hanno cercato di indirizzarlo verso l’autonomismo o il separatismo, servendosi di narrative etno-regionaliste.
Gli Stati nazionali sono meno stabili di un tempo, ma certo non in fin di vita. Anche laddove le tendenze centrifughe sono più acute (ad esempio in Spagna) è difficile che si arrivi a vere e proprie secessioni. Dobbiamo tuttavia abituarci a compagini territoriali meno rigide di un tempo, a forme di regionalismo differenziato, al rafforzamento di euro-regioni transfrontaliere interessate a creare sinergie sul piano economico e delle politiche pubbliche locali. Non a caso, le euro-regioni più consolidate sono situate a cavallo del corridoio commerciale lungo il Reno e di quello orizzontale Catalogna-Carinzia.
Che implicazioni avranno (in parte hanno già) le solidarietà territoriali competitive per le regioni povere? Gli automatismi redistributivi del passato non possono più essere dati per scontati. Spesso questi automatismi, soprattutto in Italia, hanno finito per riprodurre nel tempo la sindrome del sottosviluppo. Del resto proprio i casi spagnolo e tedesco dimostrano che i divari regionali non sono una condanna biblica, ma possono attenuarsi grazie a incentivi intelligenti e investimenti capaci di attivare dinamiche endogene di crescita. Per certi aspetti, dunque, le trasformazioni in atto possono avere effetti positivi: meno assistenzialismo, più incentivi allo sviluppo. Sul quadro d’insieme è però bene porsi tre interrogativi strategici.
Il primo riguarda il piano dei valori e dei principi. Fra i sostenitori dell’autonomismo territoriale e delle solidarietà competitive prevale spesso un discorso quasi darwiniano. Riassunto brutalmente: se siamo ricchi, è merito nostro, dunque giù le mani dai nostri soldi. Come tutti i ragionamenti basati sulle nozioni di merito e colpa, anche la meritocrazia territoriale non può ignorare tuttavia un dato di fatto. Spesso il successo è il risultato di semplice «fortuna»: ad esempio la posizione geografica. La redistribuzione verso le aree periferiche è dunque anche una questione di equità. Stimolata proprio dalle trasformazioni in atto, la filosofia politica sta oggi riflettendo molto sulla giustizia territoriale, che poi è una variante della giustizia distributiva tout court.
Il secondo interrogativo riguarda economia e società. Un po’ di competizione territoriale non può che avere conseguenze positive sulla crescita delle risorse e delle opportunità per tutti. Chi nasce e cresce in territori poveri è libero di andarsene. Ci sono tuttavia soglie oltre le quali le disparità creano effetti perversi sul piano aggregato: anche i ricchi finiscono per stare peggio. Dopo tutto, le politiche di coesione dell’Ue, volte ad aiutare le regioni in ritardo di sviluppo, sono state introdotte e calibrate nel tempo proprio perché considerate essenziali per un buon funzionamento del mercato interno.
Infine l’interrogativo più spinoso, che riguarda la politica. Sulla scia di un tortuoso sviluppo storico, punteggiato di sangue e violenza, nella seconda metà del Novecento lo Stato-nazione è diventato un contenitore territoriale capace di garantire «libertà, eguaglianza e fraternità» tramite istituzioni liberaldemocratiche. Nello stesso periodo, l’integrazione europea ha operato come «forza gentile» (per usare la bella espressione di Tommaso Padoa-Schioppa) al fine di pacificare il continente e risolvere problemi comuni. Il circolo virtuoso sembra essersi oggi spezzato, sotto l’attacco di forze centrifughe a ogni livello. Molte formazioni autonomiste o separatiste sono anche euroscettiche. Una sorta di parricidio, visto che è stata proprio l’integrazione europea a creare le condizioni per la loro emersione. In altri casi (Catalogna, Fiandre) i separatisti danno per scontata l’appartenenza alla Ue anche dopo l’indipendenza, non rendendosi conto dello shock politico a catena che tali cambiamenti rischierebbero di avere sulle fondamenta istituzionali della Ue.
Il modello delle solidarietà competitive può reggere solo entro limiti ben definiti (etici, economici, politici), sennò diventa distruttivo. E soprattutto funziona solo se virtuosamente inquadrato all’interno del contesto politico-istituzionale della Ue (euro compreso). Su quest’ultimo punto, sarebbe auspicabile che i governatori di Lombardia e Veneto (e la Lega più in generale) facessero chiarezza prima del referendum del 22 ottobre. Accompagnando la richiesta di maggiore autonomia con l’impegno a sostenere la Ue e l’euro, senza se e senza ma.