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 2017  settembre 17 Domenica calendario

Russia 1917, la rivoluzione dimenticata

SAN PIETROBURGO. Roman ha vent’anni e non sa niente. È ucraino, di Doneck, ma come tutti nel Donbass parla russo. Da un anno lavora al bar dell’Hotel Angleterre sulla Malaja Morskaja, di fronte alla cupola d’oro di Sant’Isacco. L’Angleterre è un albergo carico di storia: qui soggiornò nei giorni cruciali della Rivoluzione di ottobre il giornalista americano John Reed, che Lenin esaltò paragonandolo a Erodoto per la sua fulgida e appassionata cronaca dei dieci giorni che sconvolsero il mondo; otto anni dopo fu trovato impiccato nella stanza numero 5 il poeta-dandy Sergéj Esénin, marito di Isadora Duncan. E sempre all’Angleterre Stalin si era ripromesso di brindare alla fine del lungo assedio di Leningrado.
Ma Roman tutto ciò lo ignora. A suo modo è un perfetto testimonial di come a cento anni di distanza memoria e amnesia si fronteggino in quel balocco dai colori pastello che è San Pietroburgo. E dire che – a saperla ascoltare – la città ora declama, ora biascica come una sibilla, ora urla come uno sciamano scita reso pazzo da Dioniso lungo la via baltica dell’ambra scandendo lo sterminato catalogo dei suoi figli eletti e reietti. E non c’è come attraversarla, specchiandosi nelle quinte scintillanti di un’architettura quasi irreale nella sua intatta perfezione per udirne il canto eversivo e misterioso. Come quello di Anna Achmatova, la più alta, invisa e rispettata fra le voci del Novecento russo, che tutto sovrasta come la guglia dell’Ammiragliato: non si viene qui solo per le notti bianche e la scenografica teoria dei palazzi allineati lungo le acque scure della Neva, ma anche per immaginare di udirne nuovamente la voce: parla per lei la prigione di Kretsij dove le purghe di Stalin avevano confinato suo marito e suo figlio Lev, parlano il suo Requiem e il suo Poema senza eroe, parla di lei quel magnifico ritratto educatamente cubista conservato al Museo Russo a firma di Nathan Altman; e quasi non ci si crede che quella figura femminile dalla carnagione diafana avvolta in uno scialle ocra sia la stessa donna ritratta da Modigliani (del resto non è forse lei – benché mai fu disposta ad ammetterlo – quel-l’insistita figura femminile dal lungo collo e dai capelli corvini?) all’epoca di quel tempestoso e straziato amore parigino del 1910, cominciato per caso alla brasserie La Rotonde di Montparnasse dove seduti ai tavolini potevi scorgere Diego Rivera, Trockij, Picasso, e concluso l’anno dopo con un addio alla stazione e una lirica risoluta e gelida – come il suo algido sguardo arrogante e aristocratico – e fin da subito fatalmente famosa (Questo è il canto dell’ultimo incontro / gettai uno sguardo alla casa buia / solo in stanza da letto le candele / ardevano di un lume indifferente e giallo).
Capitale crudele e altera – così la vollero Pietro il Grande e Caterina –, costruita sul sangue e la fatica di oltre 300mila fra prigionieri e servi della gleba, San Pietroburgo macina e allinea i suoi eroi di ieri e di oggi come un dio sordo e indifferente. Da Puškin, il cantore del Cavaliere di Bronzo, che muore in duello difendendo l’onore violato della moglie, a Iosif Brodskij, condannato ai lavori forzati per “parassitismo” (il crimine sociale numero uno nell’era post-staliniana); da Gogol’, che la città imperiale respinge comeparvenu trasformandolo in sardonico accusatore («Tutto è inganno a San Pietroburgo», lascia scritto), a Šostakovic, che con l’accusa di formalismo (la più letale, per un artista sovietico) precipita dalla fama alla disgrazia irritando Stalin alla prima della sua Lady Macbeth del distretto di Mcensk e da quel giorno vive nel terrore; da Dostoevskij, che si compromette con i circoli socialisti e scampa di un soffio la fucilazione ma viene deportato in Siberia a Omsk, all’altero Turgenev, che per primo conia il termine “nichilista”: tutti quanti figli di una città mutante e mutevole come la successione dei suoi nomi (San Pietroburgo, Pietrogrado, Piter, Leningrado, di nuovo San Pietroburgo), che nello spazio di un mattino ti fa sentire un re e un istante dopo uno zek, un internato nei gulag per i quali molto spesso – come per Osip Mandel’štam – il biglietto è di sola andata.
La smemoratezza di Roman, che confeziona deliziosi vodka tonic scusandosi per la penuria di liquori occidentali a causa delle sanzioni in corso ai danni della Federazione Russa, non è casuale e non è solo la giovane età a esserne responsabile. Della Rivoluzione, della sommossa nelle fonderie di Vyborg, del monaco analfabeta Rasputin, il santo-diavolo che teneva fra le dita l’impero russo, della sua fine grandguignolesca nel gorgo ghiacciato della Malaja Neva, dell’aristocrazia che danzava sull’abisso nell’inverno del 1917 nascondendosi dietro il mai sopito amore per i culti misterici e pagani che un altro figlio illustre di San Pietroburgo come Igor Stravinskij aveva resuscitato quattro anni prima con il suo Sacre du printemps, della Fortezza Pietro e Paolo affollata di detenuti politici meticolosamente rastrellati dall’Okhrana, del colpo di cannone della fregata “Aurora” che segnava l’assalto al Palazzo d’Inverno Roman non ha coscienza né memoria. A cento anni dalla Rivoluzione di Ottobre San Pietroburgo esala una svagata smemoratezza, un’assenza pressoché totale di accenti, non un convegno, una mostra, una manifestazione. Una damnatio memoriae che nella sua intenzionalità ha qualcosa di magistrale. E il sospetto lambisce irresistibilmente la figura di uno degli ultimi figli illustri di Leningrado, l’ex giovane funzionario del Kgb, nipote del cuoco Spiridon che cucinava per Lenin e Stalin, il figlio del sommergibilista e membro del Commissariato per gli affari interni che gli impose il suo stesso nome: Vladimir Vladimirovic Putin. «È la consegna del silenzio imposta all’alto», confida un diplomatico occidentale. Già. Tutto tace nella città del Marinskij che vide il debutto di Musorgskij, Cajkovskij, Rimskij-Korsakov e la première verdiana de La forza del destino; tutto tace tranne la musica, da anni in mano al moscovita Valerij Gergiev, ruvido e temuto direttore d’orchestra e amico personale di Putin. Non stupiamoci troppo: nella vincente miscela di nazionalismo etnocentrico e ritorno alle radici spirituali della Madre Russia (in pochi anni sono state edificate diecimila nuove chiese in tutto il Paese) promossa con calcolata astuzia dall’inquilino del Cremlino le commemorazioni del settantennio comunista sarebbero solo un imbarazzante intermezzo. Come fa da intermezzo quella lapide di granito di Lenin, incastonata fra le vetrine di un McDonald’s e il sontuoso ingresso di un concessionario della Rolls Royce. È finito così il padre della rivoluzione, insieme alle sue utopie: imbalsamato a Mosca e dimenticato nell’antica capitale dell’impero. Ed è già tanto se i ragazzi come Roman rammentino vagamente il suo nome, o quello di Stalin. Per il quale, per l’oblio che qui avvolge la cupa era delle purghe, parla soltanto con gelida purezza l’“epigramma antisovietico” che Osip Mandel’štam scrisse nel 1933 e che gli valse il gulag: «Viviamo senza più avvertire sotto di noi il paese, / a dieci passi le nostre voci sono già bell’e sperse / e dovunque ci sia spazio per una breve conversazione / eccoli ad evocarti il montanaro del Cremlino. / Le sue tozze dita sono grasse come vermi / e le sue parole sicure come fili a piombo. / Se la ridono i suoi baffi da scarafaggio/ e i suoi gambali scoccano neri lampi».