Libero, 15 settembre 2017
Importiamo casalinghe
Parte dei migranti è necessaria al nostro mercato del lavoro, certo: ma le migranti, le donne? Dovrebbero esserlo a loro volta. Ma a pagina 4 del rapporto annuale sui migranti, curato dal ministero del Lavoro, ci sono dei dati sconcertanti. Si parla dell’alto tasso di disoccupazione di alcune comunità (marocchini 25%, pakistani 24%, tunisini 23%, albanesi 20%) ma si rileva che questo tasso è molto più alto per le donne (pakistane 67%, egiziane 62%, tunisine 44%, ghanesi 37%) nonostante una forte richiesta in determinate professioni: e vien da sospettare, da una parte, che lo status «disoccupata» talvolta possa essere una facciata. Poi, però, ci sono le percentuali di chi ammette tranquillamente una conclamata inattività: parliamo dell’80% delle donne di Pakistan, Egitto, Bangladesh e India, donne cioè non hanno lavoro né lo cercano. È una percentuale di 20 punti più alta rispetto ai loro paesi d’origine. Significa, non fosse chiaro, che importiamo non solo un numero spropositato di disoccupate e di inattive, ma che importiamo anche una cultura: quella della donna che non deve lavorare, o che deve farlo un po’ così, arrangiandosi, in subordine a un ruolo di inferiorità che spesso la religione di riferimento contempla e giustifica. Chissà che cosa ne pensa il progressismo nostrano. Chissà se avrebbe voglia di spiegare, a questi migranti, che in certe cose noi e loro non siamo semplicemente «diversi»: noi siamo più avanti, e basta.