Linus, 9 settembre 2017
Mondo futuro
C’è una frase che all’indomani delle tornate elettorali sembra colonizzare trasversalmente bar, uffici e cessi pubblici, fa più o meno così: «Se non sei progressista a ventanni, sei senza cuore. Se lo sei ancora a cinquanta, sei senza cervello». Qualcuno l’attribuisce a Winston Churchill, qualcuno a George Bernard Shaw, altri sono pronti a giurare che il primo a pronunciarla sia stato Edmund Burke. Poco importa. E una frase stupida. E, come tutte le generalizzazioni, è anche pericolosa.
Lo scorso 8 giugno i cittadini britannici sono stati chiamati a eleggere il nuovo primo ministro. Theresa May era data per favorita, ma il risultato emerso dalle urne ha contraddetto i pronostici: Jeremy Corbyn, dopo una campagna elettorale fortemente sbilanciata a sinistra, ha raccolto abbastanza voti da togliere la maggioranza al premier uscente; in buona parte, il merito è degli elettori under 30, la cui partecipazione al voto si assesta a seconda delle stime tra il 66 e il 72% (un salto netto rispetto al 43% del 2015).
Accostato all’exploit di Jean-Luc Mélenchon, e prima ancora a quello di Bernie Sandcrs, il risultato di Corbyn è apparso come la stigmata di una tendenza inconfutabile. Il Guardian ha subito parlato di youthquake,prendendo in prestito un termine coniato da Dana Vreeland di Vogueper descrivere il fermento culturale giovanile degli anni 60; termine che però, applicato allo scenario politico odierno, risulta fuorviante. Interpretare queste dinamiche come il semplice prodotto di un’irruenza postadolescenziale, infatti, significa ridurre la questione a una sorta di fenomeno sismico ricorrente, quasi la tendenza dei giovani a votare a sinistra fosse una tara inevitabile e non invece il frutto di una riflessione comune sull’attualità.
Il fatto è che per anni la politica tradizionale ha snobbato i cosiddetti «Millcnnials» (termine con cui si identificano le persone nate tra la fine degli anni 80 e il 2000), affidandosi a un calcolo poco lungimirante: meglio tutelare una fascia demografica che tende ad affollare le urne, piuttosto che convincere una nuova fauna elettorale a esprimere il proprio voto. Per un certo periodo il ragionamento ha filato: gli under 30 disertavano i seggi mentre tutti gli altri continuavano a esprimere preferenze per i partiti tradizionali. Ma visto che nell’ultimo anno la situazione è palesemente cambiata, ora tutti si affannano ad aggiornare il proprio repertorio da bar: i giovani sono tornati a votare, e (sorpresa) votano a sinistra.
Fino ad oggi aveva fatto comodo pensare ai Millcnnials come a una generazione individualista, apatica c superficiale. Ma anche quella era una generalizzazione miope. Se andiamo a guardare i dati, oggi gli under 30 sono quelli che dedicano maggior tempo allo studio e all’informazione, leggono più libri, tendono a preferire i saggi ai romanzi, i libri cartacei a quelli digitali, le distopie al realismo (dati Pew Research 2016); sono abituati a vedersi cucita su misura qualsiasi cosa, dalla playlist di Spotify ai risultati di Google; la parola «socialismo» non li intimorisce, in compenso diffidano del termine «capitalismo», che ricollegano a una crisi economica che li costringe, fin dall’adolescenza, a ridimensionare sogni e aspettative; nutrono poco entusiasmo per i partiti tradizionali ma allo stesso tempo, in un’epoca di generale sfiducia, sono i più inclini a credere che i governi possano migliorare le loro condizioni. Condizioni che, è il caso di sottolinearlo, sono tutt’altro che idilliache: le rette universitarie sono in aumento, la disoccupazione giovanile è a livelli tragici (in Italia, a inizio luglio, si assesta intorno al 37%), quelli che lavorano guadagnano in media molto meno dei loro genitori (e dei loro fratelli maggiori), di conseguenza vanno a vivere da soli più tardi.
Se la generazione X (i nati negli anni 70-80) è stata una generazione di delusi,cresciuti con un’idea tanto progressiva quanto illusoria di futuro, quella dei Millennials è una generazione di disillusi,cresciuti nella consapevolezza che non esistono ricette per prenotarsi un avvenire stabile. Non stupisce allora che i giovani elettori oggi preferiscano essere sfidati che rassicurati. Ma non è solo una questione di buonsenso, questa inclinazione ha anche a che fare con il modo in cui il cervello umano si rapporta al concetto di «futuro».
Nel libro Homo Prospectus(Oxford University Press 2016), Martin Seligman analizza una serie di studi sui processi mentali consci e inconsci, per spiegare come l’essere umano viva costantemente proiettato nel futuro. La capacità di immaginare i possibili sviluppi a lungo termine di una data situazione è esclusiva della specie umana, ed è un tipo di pensiero cui dedichiamo gran parte delle nostre giornate. Anche se consciamente può sembrare il contrario, pensiamo al futuro tre volte più di quanto rimuginiamo su eventi passati, siamo macchine biologiche programmate per la proiezione di potenziali epiloghi, instancabili e inL consapevoli creatori di futuro; e questo vale in parA ticolare per i giovani adulti. A fronte di questi dati, B Seligman c soci ritengono che, senzà adottare una prospettiva futura, determinate problematiche w non possano essere riconosciute (e dunque superate). Pensare al futuro può creare ansie, è vero, ma altri studi mostrano come le operazioni mentali di pianificazione c anticipazione ci rendano tendenzialmente più felici, combattivi, disposti a entusiasmarci. E, probabilmente, anche a votare.
Quando Mélenchon propone il 90% di tasse su chi guadagna più di 400.000 euro -all’anno non sta solo facendo una boutade populista, sta anche prendendo per le corna l’intollerabile sperequazione fra chi guadagna più di quanto possa spendere e chi non ha un reddito sufficiente a programmare il proprio futuro. Quando Jeremy Corbyn annuncia che il suo partito sta valutando la fattibilità di un reddito di base universale, non sta solo appendendo il classico specchietto per allodole, sta affrontando problematiche che diventano visibili solo in una prospettiva futura (come ad esempio la riduzione delle opportunità di lavoro legate all’automatizzazione), e allo stesso tempo sta delineando un’idea di società in cui il baricentro non verta necessariamente sul lavoro.
La generazione Millcnnial è cresciuta con una politica che liquidava ogni propulsione visionaria come «utopia», che a parole prometteva cambiamento ma nei fatti offriva una cosmesi dello status quo. Ma se è vero che il cervello umano è programmato per pensare al futuro, c anche vero che il futuro è riconoscibile solo quando offre elementi di rottura con il presente. A prescindere dalla fattibilità delle loro proposte (su cui si può e si deve discutere), Sanders, Corbyn e Mélenchon sono riusciti a elaborare un’idea di futuro distinta e riconoscibile, senza per questo cedere alle sirene dell’antipolitica. Piìi o meno consapevolmente, hanno consegnato all’elettorato più giovane il genere di risposta che il loro cervello li spinge a cercare.
A conti fatti, dunque, la frase di Churchill (o di Burke) ha molto più senso se ribaltata. «Se non sei più progressista a cinquantanni, sei senza cuore. Se non lo sei a venti, sei senza cervello».