Internazionale, 8 settembre 2017
La mia Corsica violenta
Di fantasmi se ne incrociano quasi a ogni angolo di strada, sotto i portici, nei vicoli, in mezzo alle piazzette e lungo i viali, vicino ai giardini: in tutti i luoghi in cui qualcuno è stato ucciso da un proiettile 0 più raramente da una coltellata. Da nord a sud, in pochi chilometri quadrati qualunque percorso nella città di Bastia porta sulle loro tracce, qualunque strada permette di ricordare. A condizione però di avere una buona memoria, perché sono così tanti che si perde il conto.
Vicino a casa mia Emmanuel Multeddo, un tranquillo maestro di terza elementare, è stato ucciso da un proiettile in pieno petto in rue Sant’Angelo l’8 settembre 2008, mentre andava a fare lezione ai suoi ragazzi. Poche centinaia di metri più in là, in mezzo a boulevard Paoli, Jean Ribero è stato ucciso il 7 ottobre 1984. Undici anni dopo, a due isolati di distanza, un commando ha teso un’imboscata mortale al militante nazionalista Pierre Albertini.
Non lontano da qui, in rue du Conventionel-Saliceti, il 30 luglio 1984 è stato ucciso Pierre Luciani, 19 anni. Poi basta prendere rue Gabriel-Peri per arrivare davanti alla stazione, dove Zoltan Gracin, 38 anni, è stato pugnalato a morte nel 2001. Se si continua lungo avenue Jean-Zuccarelli si passa davanti all’ex internet point dove lo stesso anno è stato ucciso Nicolas Montigny. Andando invece verso il porto si arriva al giardino Saint-Victor, dietro il municipio: qui Jean Baldi ha ricevuto cinque scariche di pallettoni nel giugno del 1992, non lontano da rue Luce-de-Casablanca dove Joseph Breschi, 48 anni, è stato ucciso con sei proiettili il 22 ottobre 1985, e dall’avenue Émile-Sari, dove è morto Jacques Anton nel 1994.
Da qui, se si risale da place Saint-Nicolas alla place du Marche, il percorso è letteralmente costellato di spettri: una decina circa in meno di trecento metri. Altri due s’incontrano sul quai des Martyres: sono quelli di Jules Grimaldi, ucciso da tre fucilate nell’ottobre del 1988, e di Jean-Marc Infantès, morto nel giugno del 1991. Più lontano in direzione del vecchio porto, la porta chiusa del locale U Fanale ricorda la strage che ha fatto quattro vittime 17 anni fa. Dopo aver superato la rue du Colle che raggiunge il quartiere della Citadelle, si arriva a place d’Armes, dove Zézé Mincarelli è stato ucciso il 9 agosto 1985 e dove Pierre Rocchi è stato abbattuto al volante della sua macchina nel settembre 2001.
Una trentina di morti con una passeggiata nel centro di Bastia. Ma la cifra raddoppia se si contano le vittime nei quartieri popolari a sud della città, e diventa cin que volte maggiore se si estende di qualche chilometro il raggio delle ricerche. Più in là la memoria non basta e bisogna fare riferimento ai dati ufficiali raccolti dalla prefettura della Corsica e dal ministero dell’interno: dal 1988 quasi settecento persone sono state uccise sull’isola. Un numero superiore a quello dei militari francesi uccisi in tutte le operazioni all’estero dal 1963 a oggi. Dal 2001 al 2012, gli anni della missione militare francese in Afghanistan, il numero delle vittime degli scontri a fuoco in Corsica è stato due volte e mezzo superiore a quello dei soldati francesi uccisi dai taliban. Applicando questo tasso sull’insieme della popolazione nazionale si arriverebbe a circa cinquemila omicidi all’anno, cioè sei volte il numero di morti violente registrate ogni anno in Francia. Un record, l’unico che la Corsica è riuscita a stabilire.
Forma impersonale
Seduto al tavolo di un caffè, con il collo della camicia blu sbottonato, Pierre-Jean Franceschi fa ruotare la tazzina di caffè con un gesto involontario e delicato. Negli ultimi ventanni questo diacono dall’aria gioviale ha partecipato a più di duecento funerali di vittime di omicidio. Franceschi è molto apprezzato per la sua capacità di tenersi a distanza dalle inimicizie, di trovare le parole giuste per calmare le crisi di nervi di una madre svegliata alle 11 di sera per ricevere la cattiva notizia.
È un’esperienza che ha plasmato i suoi riflessi di uomo di chiesa. “Quando un’impresa di pompe funebri mi chiama di notte non ho bisogno di chiedere perché”, spiega. “Questa è la cosa terribile, ormai quando si viene a sapere della morte di un uomo giovane e in buona salute questa è la prima reazione, ancora prima di pensare a una causa naturale 0 a un incidente. È morto? Allora vuol dire che l’hanno ucciso”.
“L’hanno ucciso”: questo soggetto indefinito è senza dubbio il principale responsabile di morti violente nell’isola. Infatti, se si escludono i casi più evidenti, i drammi familiari o gli omicidi dovuti all’ubriachezza, questa forma impersonale raramente acquista un’identità precisa. E ciò non fa che alimentare la diffidenza della popolazione verso le istituzioni.
In questo modo si perpetua il ciclo della vendetta privata, una “vendetta” in passato così strettamente codificata da ispirare nel 1920 la tesi di diritto pubblico di un avvocato lionese, Jacques Busquet. Uccidere per riparare, una spirale infernale. “È quello che mi ha detto un giorno un anziano”, racconta Franceschi. “Uccidere è il miglior rimedio per la tristezza di una madre”.
Tutti i parenti delle vittime lo riconoscono: la morte violenta, spesso associata all’impunità dei criminali, impedisce di superare il lutto e alimenta domande senza fine, che a loro volta favoriscono la paranoia tipica delle società insulari, microcosmi chiusi in se stessi. “Ogni giorno che dio manda in terra”, si lamenta il migliore amico di un ragazzo ucciso due anni fa, “mi dico che forse stringo la mano del suo assassino, che lo incrocio in palestra o che bevo con lui. Tutto questo mi torna in mente di continuo. Ce da impazzire”.
Da trentanni Felicia Sisti prova più o meno le stesse cose. In un assolato pomeriggio di giugno, questa bella donna “arrabbiata” che dimostra molto meno dei suoi sessantanni sembra quasi scusarsi di portare un vestito chiaro invece del nero a cui aveva finito per abituarsi. Nel 2012 un duplice omicidio le ha portato via il marito e il cognato. Suo marito, Jo Sisti, era un noto militante indipendentista, coinvolto nel processo di pace che mise fine alla “guerra fratricida” tra gruppi nazionalisti della metà degli anni novanta. “Un uomo integro, come nostro cognato”, dice Felicia.
Nel frattempo, e nonostante cinque inchieste, la magistratura non è ancora riuscita a far luce sull’uccisione del fratello di Felicia e di suo cugino, nel 1982. Questi trentanni di lutto ininterrotto e di processi inconcludenti Felicia li ha vissuti tra gli stessi pensieri: “Gli investigatori, i giudici, cosa cercano di nascondere?”.
C’era qualcosa
Poliziotti, magistrati e schiere di giornalisti in cerca d’ispirazione hanno creduto di trovare nell’omertà un’infallibile giustificazione, e non importa se questo termine è sconosciuto nella lingua corsa, perché ha il comodo vantaggio di cancellare una realtà molto più banale: per decenni lo stato francese ha impiegato quasi tutti i suoi mezzi nella lotta al terrorismo, lasciando campo libero al crimine organizzato, che ha potuto prosperare infiltrando interi settori del mondo economico e politico locale.
Così le abitudini della criminalità hanno contaminato in profondità la società corsa e si è imposta una visione cinica e brutale del ricorso alla violenza, considerata non come soluzione estrema ma come un modo accettabile 0 addirittura normale di risolvere i conflitti. In seguito i nazionalisti hanno cominciato a uccidersi tra loro, e i corsi hanno scoperto la natura profondamente antropofaga della società in cui vivono: una società in cui tra il 1825 e il 1880 si sono registrati 2.783 omicidi e tentati omicidi, cinquanta all’anno.
È facile calcolare le conseguenze di questa situazione sulla vita quotidiana: in una popolazione così ristretta, con forti legami sociali, familiari, locali 0 di amicizia, raramente una persona è a più di due o tre gradi di separazione da un omicidio.
Prendiamo il commerciante che ho incontrato al bar una mattina. Tre suoi familiari sono stati uccisi nell’arco di 18 mesi. Quella simpatica manager che lavora in fondo alla strada? Suo padre è stato ucciso, così come è stato ucciso il padre di uno dei miei amici d’infanzia, mentre cercava di rapinare un commerciante poi caduto sotto i colpi del suo complice, che è stato a sua volta fatto fuori qualche anno dopo. A dire il vero non ho bisogno di andare molto lontano: nel giugno del 1991 hanno ucciso anche mio zio.
Molte vittime avevano scelto consapevolmente di vivere nell’illegalità, e una morte violenta fa parte dei rischi del mestiere. Ma i loro parenti? Anche loro avevano scelto? L’onestà di una famiglia non sembra influire molto su questa constatazione empirica: dai piccoli paesi alle città, chiunque è stato o può essere colpito. Come testimoniano gli interni delle case corse, tappezzati di ritratti ingialliti di compagni di scuola elementare scomparsi, di baffi spioventi anni settanta, di volti sorridenti di amici fotografati in discoteca o davanti al primo cinghiale della stagione di caccia. La morte violenta circonda tutto. Ma invece di considerarla per quello che è – l’incarnazione tragica di un modo di essere infantile e incapace di reinventarsi – la società corsa ha preferito sviluppare riflessi pavloviani di rimozione, capovolgendo il paradigma dell’omicidio.
C’era qualcosa, si sente mormorare in occasione dell’ultimo omicidio, tra l’imbarazzo e l’aria di chi la sa lunga. In altre parole, la vittima aveva necessariamente “qualcosa” da rimproverarsi. Ma quale peccato aveva potuto commettere Mathilde Signanini, una giovane cameriera uccisa insieme al suo ragazzo nel 2001? E di cosa potevano essere colpevoli i figli di Florian Costa – otto mesi e cinque anni – per dover assistere all’omicidio del padre nella sua Golf nera una sera d’inverno nel 2010?
“Né donne né bambini”: la seconda strategia per prendere le distanze dalla tragedia si riassume in questa espressione, basata sull’illusione che esista un codice d’onore che non trova riscontro nei fatti. L’8 novembre 2011 ad Ajaccio, cercando di colpire l’ex militante nazionalista Yves Manunta – ucciso qualche mese dopo – dei sicari armati di fucili d’assalto hanno gravemente ferito sua moglie e la figlia piccola.
L’unica cosa certa in Corsica è che nessuno è al sicuro dall’omicidio, che altrove è relegato ai margini della società. Rappresentanti locali e dirigenti d’azienda, operai, ricchi, poveri, intellettuali, sportivi di alto livello, poliziotti, chiunque può essere colpito, per non parlare degli avvocati: nell’arco di 25 anni quattro di loro sono stati uccisi o sono stati vittime di un agguato.
Per i giornalisti corsi questo aspetto della vita locale ha conseguenze immediate: in pochi anni di professione si occupano di diverse decine di omicidi, più di quelli che i colleghi della terraferma vedono in tutta la carriera. “Siamo una specie di società parallela, fatta di cene interrotte da omicidi, vacanze passate al telefono per sapere chi è la vittima, se ci sono dei sospetti o se qualcuno è stato arrestato”, racconta Henri Mariani di France 3 Corse, profondo conoscitore della cronaca locale. “Non conosciamo la stessa Corsica dei nostri vicini e amici. Mi parlano di sole, di qualità di vita, mentre io ricordo il compleanno dei mici figli perché due giorni prima 0 due giorni dopo c’è stato un crimine terribile”.
Questa realtà influenza il modo di intendere il mestiere di giornalista, perché prima di essere un cadavere sotto la luce fredda delle lampade della polizia scientifica, questi morti avevano un volto e un carattere, dei modi di parlare, una famiglia, degli amici. Capita che un giornalista sia andato a scuola con una vittima, abbia giocato a pallone con lui, si sia innamorato di sua sorella o abbia comprato il pane dai suoi nonni.
Per questo, nonostante le critiche regolarmente rivolte alla stampa locale, le cronache degli omicidi non si riassumono mai in tre righe prese da un verbale messo in una busta da una “fonte della polizia”. E questo denota una differenza evidente con le abitudini di molti giornalisti dei mezzi d’informazione nazionali.
Mi ricordo di un caso accaduto una decina di anni fa, nel corso di una serie di feroci regolamenti di conti: un famoso giornalista era arrivato in Corsica per completare il percorso obbligato degli specialisti di cronaca nera. Decine di cadaveri costellavano già la sua lunga carriera, ma due giorni dopo il suo arrivo aveva avuto l’occasione di constatare quanto la differenza tra vedere e sapere cambia il lavoro di reporter.
Chiamato sulla scena di un crimine, era quasi svenuto alla vista del cadavere e aveva preferito chiudersi in auto. Nel frattempo i giornalisti locali chiacchieravano con i pompieri e con i poliziotti, a due passi dal corpo: cose di tutti i giorni. Il famoso gior nalista sapeva che un cadavere non è una bella cosa, ma un corpo insanguinato lo aveva visto solo in fotografia. Ignorava praticamente tutto dell’atmosfera di una scena del crimine, l’odore della morte, il crepitio dei flash nella notte e il balletto silenzioso delle tute bianche intorno a una figura immobile. Così quando andò via, giustificò la sua “assenza” con questo strano argomento: “Questa violenza non fa parte della mia cultura”.
Vicolo cieco
Ma la violenza è parte integrante della “cultura corsa”? Su questo punto l’opinione dominante sull’isola, sempre pronta a sentirsi stigmatizzata (e talvolta giustamente), rifiuta di ammettere l’evidenza. Manuel Valls, all’epoca ministro dell’interno, ne aveva fatto le spese il 6 maggio 2013 quando durante una trasmissione televisiva rispose a una domanda sulla Corsica: “È la regione francese dove ci sono più omicidi e più violenze, e vorreste che il ministro dell’interno neghi che questa realtà è radicata nella cultura corsa?”. “Scandalo”, “Un popolo criminalizzato”: tutti i professionisti dell’indignazione selettiva dell’isola, i politici in testa, diedero subito in escandescenze.
Ma al di là delle reazioni superficiali, come spiegare l’incredibile tasso di omicidi se non con il persistere di alcuni tratti culturali? Chi rifiuta di guardare in faccia questa realtà è consapevole che questo rifiuto porta in un vicolo cieco? Seia violenza non fosse appresa allora dovrebbe essere una caratteristica innata, dovuta a un ipotetico “gene del crimine” corso.
Sull’argomento il diacono Franceschi ha la sua idea: “Se i killer occupano un posto nella società corsa è perché la società corsa glielo ha lasciato”.
Questa banalizzazione interiorizzata della violenza mi è apparsa in tutta la sua evidenza in occasione di un banale episodio di vita quotidiana. All’epoca i miei figli avevano otto e dieci anni. Stavo cenando con loro quando è squillato il mio cellulare. “Chi è?”, ha chiesto il maggiore, e senza alzare gli occhi dal suo hamburger il più piccolo ha risposto in modo assolutamente naturale: “A quest’ora deve essere la redazione: devono aver fatto fuori qualcuno”. Poi ha continuato a masticare come se avesse annunciato un’owietà, e in un certo senso lo era.
Dopo quella cena non riesco più a occuparmi di un omicidio senza interrogarmi sui limiti della mia professione e delle mie certezze. Sono stato in grado di proteggere i miei figli? Ripetendogli di non farsi mai pestare i piedi, non gli ho forse inculcato l’idea che ricorrere alla forza è legittimo?
Ho 42 anni. Come quelle che l’hanno preceduta, la mia generazione è vissuta non solo in un’atmosfera di grande violenza, ma nel culto della sua assoluta necessità. Un atteggiamento che lo scrittore Marcu Biancarelli ha riassunto in una formula lapidaria: “Una continua gara a chi ce l’ha più lungo”. All’inizio degli anni duemila Biancarelli ha pubblicato diverse raccolte di racconti che hanno rivoluzionato l’ambiente letterario corso, apatico e affezionato alla mitizzazione di una Corsica che non è mai esistita.
Ragazze facili, tossici, delinquenti dall’omosessualità repressa, razzisti dichiarati, politici corrotti, nazionalisti vigliacchi, pinzuti(francesi della terraferma) arroganti e stupidi: nei libri di Biancanelli le figure eroiche del passato, le donne virtuose e i banditi “d’onore”, sono sostituite dai reietti disadattati di una società passata nell’arco di quarantanni da uno stile di vita tradizionale al postmodernismo più deprimente, a un consumismo sfrenato, scaraventata in un’epoca di disordini affettivi, di precarietà economica e culturale.
“Una società corrotta dall’invidia, dal denaro, dalla violenza dei rapporti sociali e dalla continua ricerca di scorciatoie”, spiega Biancarelli con la sua voce roca da fumatore incallito. “Soprattutto, una società in cui i rapporti di forza sono messi alla prova ogni giorno, perché la virilità esasperata vieta di perdere la faccia, costi quel che costi”.
Shock culturale
Ovviamente la Corsica non è solo questo, ma è anche questo, e per quanto sia difficile devo ammettere che mi riconosco in parte in questa descrizione. Per quanto mi faccia orrore, penso che la violenza può essere liberatrice, che conoscerla da giovani permette di verificarne i limiti, di difendersi meglio, di proteggere meglio gli altri. Rifiutarsi di usarla per principio significa rischiare di diventare una vittima.
A 17 anni, quando sono andato a studiare a Parigi, ho provato il mio primo shock culturale (a parte il fatto che ognuno pagava il proprio caffè, un’abitudine sconosciuta in Corsica dove qualcuno paga sempre per tutti) quando ho constatato che li la violenza era considerata il male assoluto, la manifestazione di una barbarie primitiva.
Ho anche constatato – nel corso delle due sole aggressioni fisiche subite in dieci anni di vita parigina -che chi ha l’abitudine di fare il prepotente senza temere conseguenze si rivela un vigliacco quando riceve il primo colpo, che la sua superbia si sgonfia e la sua sicurezza crolla quando sente in bocca il sapore del sangue.
Conoscere la violenza mi aveva preparato ad avere la meglio. Non avevo ancora 18 anni ed ero già stato testimone di una scena in cui due ragazzi appena più grandi di me si puntavano reciprocamente la pistola in faccia davanti a un locale notturno. E dovevo avere paura di due tipi che volevano rubarmi le scarpe nella metropolitana di Parigi?
“Bisogna sempre privilegiare il dialogo”. Sarà una conseguenza della mia cultura corsa, ma penso che questo imperativo morale, questo inattaccabile credo delle nostre comode società sia responsabile delle peggiori catastrofi umanitarie. La storia dimostra che ci sono momenti in cui cercare un compromesso è inutile e porta solo ad accettare la fatalità della rovina. Sono consapevole che questa affermazione può dare fastidio, ma la ribadisco.
Spingendo all’estremo questo ragionamento, la mia educazione corsa mi ha anche insegnato che dalla prigione si può uscire, dal cimitero no. Non è una sbruffonata: conosco il peso della violenza e delle sue terribili conseguenze, ma penso anche che possa assumere una dimensione morale quando permette di salvare la pelle di qualcuno, la propria in particolare, e di mettere fine all’ingiustizia o semplicemente di ribellarsi all’arbitrio. Questo fa di me un uomo violento?
Senza dubbio alcuni dei miei amici lo sono, non avendo resistito al fascino ipnotico che la violenza suscita talvolta nella nostra isola. Altri invece cercano di tenersene più lontano possibile, rischiando però di tagliare i ponti con la società corsa. Altri ancora hanno cercato una via di fuga nell’esilio, nell’alcol, nella droga o in quella forma tipicamente corsa di autoaffermazione che si esercita a danno degli altri: per esempio quando si lascia la macchina in mezzo alla strada per andare a comprare le sigarette o si considera un concorrente non come un rivale commerciale, ma come un nemico nel senso ontologico del termine.
Le generazioni future avranno la forza di rompere con questi comportamenti? Per la mia e per quelle precedenti è ormai troppo tardi. Nel 2014 uno studio realizzato da Laurent Mucchielli e André Fazi ha rivelato che quasi la metà delle aggressioni gravi avvenute in Corsica sono compiute da uomini di almeno 40 anni, e che il 61 percento degli episodi sono attacchi fisici, mentre i gesti e le minacce rappresentano solo il 4,2 per cento del totale. A quanto pare in Corsica è proprio nell’età della ragione che si ricorre più facilmente alla violenza diretta e senza preavviso.
In fondo sono pessimista. I giovani corsi sono già esposti a nuove forme di aggressione, pericolose quanto le bombe e le raffiche di mitra: l’aumento del traffico di droga e del consumo di cocaina, la precarietà.
Dietro alle cartoline con le spiagge bianche e le montagne maestose c’è un’immagine meno attraente: il tasso di povertà delle famiglie sotto i 30 anni ha raggiunto quasi il 30 per cento, il 38 per cento dei corsi non ha un titolo d’istruzione superiore e l’isola è la regione francese con il più alto tasso di povertà tra gli anziani e i giovani. In queste condizioni come resistere al trauma annunciato dell’impoverimento, mentre sull’isola si ammassano ricchezze colossali con l’aiuto della corruzione, nonostante l’aumento della precarietà?
Mentre stavo finendo di lavorare a questo articolo, un poliziotto mi ha dato la sua opinione: “Sono anni che il denaro sporco viene riciclato in Corsica, inutile ripeterlo. Il traffico di droga è preoccupante, ma non siamo ancora ai livelli del resto della Francia. La piccola criminalità è inesistente, e gli omicidi sono in calo. La situazione è abbastanza positiva”. Subito dopo aver riagganciato, il mio telefono ha squillato di nuovo. Un uomo di cinquant’ anni era appena stato ucciso ad Ajaccio.