Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2017  settembre 09 Sabato calendario

Andre Agassi

«LA MENTE DEGLI DEI ETERNI NON SI CAMBIA all’improvviso» e nemmeno quella di Andre Agassi: citando una sua citazione dell’Odissea, ne ha impiegato di tempo la sua per diventare quella che è; e lui, semidio immortalato nella Tennis Hall of Fame, per mutare così tante volte forma: bambino prodigio, punk dell’Academy di Nick Bollettieri, flipper del fondocampo, montagna russa della classifica Atp: uno capace di stare al 114esimo posto un anno e quello successivo al numero uno... Fino all’uomo di 47 anni che e oggi. Un decennio dall’addio alla carriera e un’autobiografia da applausi dopo, Agassi ha qualcosa di mistico e vagamente zen. Sembra un bonzo: però più per la scelta di vestirsi di un solo colore – stivaletti, jeans e camicia, tutto nero - che per il cranio tondo: lo rade a zero ormai da un ventennio.
A vederlo sembra si muova a due velocità: il corpo lento e le pupille velocissime, attente a cogliere quanto gli succede intorno, come ha imparato nella culla, quando il padre gli agitava davanti agli occhi la pallina da tennis, a mo’ di sonaglietto. Ma adesso, a condurre il gioco, ce solo lui. In pace ascetica. «Ho smesso di rincorrere le vittorie, ora inseguo quanto mi dice il cuore, vado dove posso essere utile e aiutare gli altri. E ora devo aiutare Noie», dice, riferendosi al serbo Dokovic, di cui è diventato meritaicoach prima a Roland Garros e poi a Wimbledon. E qui che abbiamo incontrato il “Kid del Nevada”, 25 anni dopo la sua prima vittoria sull’erba più prestigiosa al mondo e il primo dei suoi otto Grande Slam. Anche 25 anni dopo il primo incontro con la donna che ha sposato (nell’ottobre 2001), la vincitrice femminile del Championships del ’92, Steffi Graf. «Ma non festeggiamo un “anniversario- Wimbledon”!», ride lui. «Ripensando ad allora, a come eravamo, nulla è paragonabile a cosa siamo diventati ora. E poi quell’incontro è stato fatale per me, ma lei non ha fatto una piega». All’episodio – un’enigmatica, teutonica GrafF che stringe la mano a un impacciato 22enne con i capelli alla Farrah Fawcert al gala di premiazione - accenna anche l’autobiografia con cui “Andremo”, come lo chiamava Gianni Clerici, ha compiuto un miracolo: dimostrare di essere all’altezza dell’Agassi tennista (diciamo al suo meglio), anche come Agassi scrittore (diciamo anche con l’aiuto del Pulitzer J. R. Moehringer). Un cambio di ruolo che, di recente, è riuscito forse solo a un altro grande professionista “d’altro”: Kcith Richards, con il suo Life. Li differenza, rispetto alla rockstar, è che oggi chiunque si trovi davanti il tennista pensa al suo ritratto sulla copertina di Open (uno scatto di Martin Schocller) e alla «storia di caduta e redenzione» che gli sta dietro. Immaginava un simile successo? «No. Cioè, lo speravo», ammette lui rimestando il ghiaccio nella minerale con la cannuccia. «Non ho idea di quante copie ha venduto il libro, la soddisfazione più grande è sapere che chi lo ha letto sia riuscito a trovarsi». Il fatto che sia diventato uno dei long seller più diffusi nella storia dei bestseller (in Italia per Einaudi) non ha diviso la sua vita tra un prima e un dopo: «Se mai ce stato un fondamentale “durante”: scriverlo è stata una terapia che mi ha cambiato profondamente e mi ha connesso agli altri, soprattutto all’argomento che era il più ostico: me stesso». Ex ragazzo delle contraddizioni, che usava le creste per nascondersi, pubblicizzava slogan come “L’immagine è tutto” mentre avrebbe voluto sparire e, elemento più importante, eccelleva in uno sport che detestava, almeno in una cosa non è cambiato: «L’odio per il tennis, quello mi è rimasto», dice, ma lo sguardo è indeciso se spiare il doppio in onda sul maxischermo in sala o il filetto che gli hanno appena servito. Anche adesso, come allenatore? «Non devo amarlo. Il mio compito è migliorare le prestazioni di un giocatore, entrare nella sua testa, capire chi ho davanti. Anche imparare da lui». L’empatia, per questo mistico delle performance, è fondamentale. Non ha esercitato la sua con la star di tutti i coach, Bollettieri, ma palleggiando relazioni con figure piti defilate e però centrali, grandi giganti gentili di cui si è circondato per scacciare la solitudine sul campo, tipica del tennista: l’amico Perry, il trainer Gii, il predicatore JP, Brad (Gilbert, «il piti grande troglodita nella storia del tennis») e oggi Steve Miller, il suo manager. «E anche il mio migliore amico», e indica un omone sprofondato al tavolo accanto, la pelle abbrustolita dal sole, gli occhi di ghiaccio e i capelli candidi – anche lui vestito completamente di nero. «L’ho conosciuto 16 anni fa, oggi Steve è fondamentale per me e anche per il lavoro che svolge nella fondazione». Alla sua AgassiPrep, una delle migliori freepublic charterschoolnella storia dell’educazione preuniversitaria americana, Agassi non attribuisce mai il possessivo, nonostante ci abbia iniettato quasi 40 milioni di dollari nel corso degli anni, il che forse aumenta l’impatto che sta avendo nel tessuto sociale della sua città. Non è da tutti fare del bene a “Sin City,” la capitale del peccato. «E perché?», si stupisce quando gli ventiliamo quanto sembri finto e illusorio, a chi non ci vive, qucll’abbagliantc mondo in multicolor. «Non c’è nulla di falso. Las Vegas resta ancora uno dei rari luoghi d’America ih cui la gente può ancora realizzare i propri sogni e, se si impegna al massimo, ottenere ciò che vuole della vita». La sua, oggi, è fatta – quando non allena Dokovic – di tempo in famiglia, iniziative benefiche per la fondazione («ormai è una macchina rodata, di persona ci andrò 5-6 volte l’anno») e ingaggi da testimonial, sempre per beneficenza. Come il suo contratto da Global Ambassador Lavazza, partner di tutti i quattro tornei del Grande Slam, un impegno che non poteva essere più gradito viste le industriali quantità di caffeina che consuma «a partire da quando scendo dal letto».
Altra cosa in cui non è cambiato sono i sentimenti, campo in cui Agassi continua a non amare i toni pastello. Del resto i celebri calzoncini jeans e fucsia (tecnicamente,“hot lava”) indossati là dove la regola era il bianco, erano un indizio. Allontanato da Las Vegas dal padre perché in Florida, a 4mila km di distanza, imparasse a diventare il migliore, fuori dal cemento, erba o terra rossa ha sempre avuto maggiore libertà. Anche con le donne. «La mia educazione sentimentale è cominciata intorno ai 17 anni. Stavo con una ragazza di Memphis, Tennessee, una storia che è durata un paio d’anni», ricorda sorridendo, la voce insolitamente profonda. Poi c’è stata Mandy, primo grande amore nonché teorica della coppia aperta, «con cui siamo tuttora in buoni rapporti. Ci vediamo spesso, io gioco a tennis con suo marito e suo figlio a baseball con il mio». E se di Barbra Streisand, comparsa mediaticamente ingombrante anche per i 28 anni di differenza, resta «l’affettuoso ricordo di un’amicizia», della prima moglie Brooke Shields ha «perso compieta- mente traccia». Ce lo si poteva immaginare: in Open l’ex ragazzina prodigio del film Laguna Blu appare come una soci olite vivace e distratta, il cui segno più profondo è l’averlo convinto ad arrendersi alla perdita dei capelli, dare un taglio a parrucchini e mullet e celebrarne la rasatura con una cerimonia tra amici, nella loro cucina di Los Angeles. A parte a radersi, cosa ha imparato sulle donne? «Non un granché», ammette. «Me la cavo molto meglio a capire me stesso». Steffi è un caso a parte. La tennista vincitrice di quattro Grande Slam, medaglia d’oro olimpica e madre dei loro due figli – Jaden di 15 anni e Jaz Elle di 13 – è entrata stabilmente nella sua vita sul finire degli anni ’90, poco dopo il divorzio dalla Shields (anche quello via fax, come il loro primo incontro), nella curva ascendente che seguì forse il picco discendente della sua carriera di tennista. «Ho scoperto che è come mia madre», Elizabeth “Betty” Dudley: «Era l’elemento stabile in famiglia, una certezza, nella sua rassicurante prevedibilità. Lo è anche Steffi, che in più è proattiva, precisa, or- ganizzatissima... Molto diversa da me».
Tra le donne fondamentali, c’é ora la figlia Jaz, «che ha già grinta da vendere». Essere il padre di una teenager è un iper slam, «per questo cerco di farla sentire apprezzata e di infonderle fiducia, sicurezza. Le ragazzine ne hanno bisogno, più dei maschi. E poi abbiamo lo stesso seme of humor, ridiamo per le stesse cose». A volte anche per «quella musica hip-hop che ascolta di continuo Jaden... Come fàccia a sentire quella roba non capisco». Nessuno di loro, prodotto della coppia che ha fatto la storia del tennis, è stato incoraggiato a seguire le orme dei genitori. Ma chiunque abbia letto il suo libro un’idea sul perché se le fatta. Mike, ovvero Emmanuel B. Aghassian, ex pugile immigrato dall’Iran nell’America delle meraviglie, concentrò tutte le ambizioni sul più piccolo dei quattro figli, lasciando un segno profondo in Andre. Il quale, ancora oggi, «No», non ha letto Indoor (in Italia uscito per Piemme) l’autobiografia che Agassi senior scrisse nel 2015 in risposta a Open. «Neppure Changing thè Game», altra replica letteraria, però di Nick Bollettieri, all’immagine dipinta dal suo allievo, sfumata e vessatoria. A distanza di tempo, ritrova qualcosa del padre nel suo rapporto con i ragazzi? «Assolutamente no», dice tendendo i muscoli del viso per la prima volta. «Loro possono scegliere, io non ho mai potuto». E aggiunge: «Ma sa cosa? Sono stato io l’unico educatore di me stesso, da quando ho compiuto 13 anni». C’è però una cosa che ha imparato dalla partita con papà Mike, forse la più solitaria e difficile della carriera, e cioè che «da sempre cerco di dare il massimo». C’è da credere che ci sarebbe riuscito comunque, anche senza allenarsi a battere il famoso “drago spara palle”. Pubblicherà mai un altro libro, magari ancora insieme a Moehringer? «Squadra vincente non si cambia!», spalanca un sorriso. «Se lui sarà disponibile, certo. Ma ci ho messo 31 anni a scrivere Open. Dovrò aspettarne almeno altri 20 per avere abbastanza vita da raccontare».