il venerdì, 15 settembre 2017
Tranquilli compagni, a Togliatti e Berlinguer ci pensa Amos
CARPI (Modena). Nell’auto di scorta, per difendere Palmiro Togliatti. Un viaggio notturno, per portare Enrico Berlinguer all’ultimo incontro segreto con Aldo Moro. Resta in silenzio per lunghi minuti Amos Giovanardi, classe 1932. Come in un film, gli passano davanti i volti dei compagni che come lui facevano gli autisti e le guardie del corpo del Migliore. «C’erano Lauro, Giacomino, Reclus, Braglia... Purtroppo credo di essere rimasto al mondo solo io. Ero il più giovane della squadra. Con il capo del Pci sono rimasto sei anni, dal 1952 al 1958. Di giorno alla guida della seconda auto di scorta. Di notte dormivo a casa sua, in un appartamentino al piano terra. Facevo giocare Marisa, la figlia adottiva di Nilde e Paimiro (suo fratello era stato ucciso nell’eccidio delle fonderie di Modena, il 9 gennaio 1950, ndr) e la lotti mi diceva che con la bambina dovevo parlare in dialetto, così non avrebbe perso questa abitudine. “A insegnarle l’italiano ci penso io”. Per Enrico Berlinguer ho fatto la guardia del corpo quando era segretario nazionale della Fgci e anche dopo, quando nel 1978 a Roma tirava una brutta aria. Lo accompagnai da Aldo Moro un mese prima che fosse rapito».
Un metro e 85 di altezza, peso forma un quintale o, come dice lui, mille etti. «La guardia del corpo per i dirigenti del Pei non è un mestiere o un lavoro che scegli tu. Vieni scelto: per i tuoi ideali politici, per le caratteristiche fisiche e per la serietà e il coraggio dimostrati». Venivano quasi tutti da Modena e Reggio Emilia, gli uomini della vigilanza a Botteghe Oscure. «Nel maggio 1952 fui chiamato nella sezione Pei dal sindaco di Carpi, Bruno Losi, dal comandante partigiano Vasco Lugli e dal segretario del Pei Alfonso Gibertoni: “Sei stato scelto fra gli ottantamila iscritti al Pci a Modena per fare la guardia a Togliatti. Comportati bene. Altrimenti non tornare a casa“». Inizia così, a vent’anni, un lavoro fatto di tensione e di notti bianche, di allarmi, di segreti ma anche di scherzi e di cene in compagnia. «Avevo lavorato in campagna e poi come muratore, avevo le mani quadre, a forza di lanciare i mattoni al secondo e anche al terzo piano. Ma la forza bisogna usarla bene. Servono le mani ma ci vuole soprattutto la testa». Gli altri della vigilanza lo invidiano perché appena arrivato «ero già “entrato nella manica diTogliatti”. Merito dei colombi e dei piccioni. Il Capo era un appassionato. Io sapevo trattarli bene. E poi c’è stata la storia del cane, un molosso.Togliatti va in ferie per quindici giorni in Val d’Aosta e mi consegna 1.500 lire per comprare ogni giorno 100 lire di carne per il molosso, che era obeso e faceva fatica a camminare. Io compro le bistecche, me le mangio e al cane lascio soltanto l’osso. In due settimane diventa un figurino».
Arrivano però presto i giorni di tensione. Nel settembre 1953 un corteo di studenti fascisti sfila in via Botteghe Oscure. Vengono spaccate le vetrine della libreria Rinascita e bruciati i libri. «Sapevamo che sarebbero passati anche l’indomani. Ci siamo preparati in venti della vigilanza. Io metto un legno di 40 centimetri nascosto nella manica della camicia. Usciamo. Vedo il capodeifascisti,il “Gatto de Roma, er bombarolo”. Due legnate e cade come un ravanello. E gli scoppia pure la bomba che aveva in mano, perde tre dita. Enrico Berlinguer, segretario della Fgci, guarda dalla finestra. “Quando vado fuori Roma“dice “voglio che sia Amos ad accompagnarmi“».
Arriva il tempo delle anni. «Il compagno Roncaglia, che era responsabile delle scorte a Togliatti, Longo, Secchia e altri, ci dice che sei di noi debbono prendere il porto d’armi e ci fa un discorso preciso: “1 responsabili delle pistole siete voi, non il Partito. Debbono essere usate solo per legittima difesa. Se fate errori, sarete voi e solo voi a risponderne”. Due settimane al poligono di tiro e tanti allenamenti per essere in forma. Il professore di ginnastica Montanari ci chiamava in palestra due volte la settimana, per i pesi, la boxe, il judo. Ero riuscito a scendere a 82 chili».
Infine, il ritorno a Carpi, autista del sindaco. Ma quando l’aria si fa strana, Amos è pronto a tornare a Roma. «Nel febbraio 1978 la direzione del Pei chiede a Modena di mandare altri due compagni per rafforzare la scorta a Enrico Berlinguer. Partiamo io e Alberto Marani di Fossoli. La sera del 16 febbraio, mentre riportiamo Berlinguer nella sua casa dopo ponte Milvio (si fermava sempre in un bar latteria a comprare il latte per la famiglia) lui ci prende da parte e dice: “Stasera ho bisogno di voi. Passatemi a prendere alle 21.30 e non dite niente a nessuno”. Una pizza veloce e andiamo a prenderlo. A un certo punto dice di fermarci. “Restate in auto, non uscite.Vado a piedi qui vicino, farò tardi”. Io comunque esco dalla macchina poco dopo, lo seguo da lontano, fino a quando lo vedo entrare in un portone. Torna all’1.30. Dice soltanto: “Scusatemi se vi ho fatto perdere una mezza nottata”. Dove fosse andato l’ho saputo solo un anno dopo la sua morte, quando nel 1985 l’Unità pubblicò il volume Enrico Berlinguer. Tullio Ancora, amico e consigliere di Aldo Moro, raccontava che acasasua.quel 16 febbraio, lo statista De aveva avuto il suo terzo ed ultimo incontro segreto con Berlinguer. L’aveva accolto sulla porta con queste parole: “Ma come, ti presenti senza scorta? E se ti rapiscono?“». Aldo Moro fu rapito il 16 marzo e ucciso il 9 maggio. «Ho visto il suo corpo nella Renault in via Caetani. Poverino. Ci aveva avvertito il barista accanto a Botteghe Oscure. Vicino all’auto, in quei primi minuti, c’erano solo quattro poliziotti che erano di guardia alle sedi del Pei e della Dc».
Due pistole, una P38 special e una Beretta. «Per fortuna non ho mai dovuto usarle». Stipendio del Pei, trentamila lire al mese, senza contributi. «C’erano gli ideali, allora. È sempre più difficile ma ci credo ancora. Penso di essermi comportato bene, ho avuto una buona vita. E non ho deluso chi mi aveva mandato a Roma».