La Gazzetta dello Sport, 16 settembre 2017
1988, Roma-Verona 1-0. Andreotti saluta il Divo Pruzzo
S’incontravano tutte le domeniche, nel tardo pomeriggio, quando la luce scendeva ad accarezzare i tetti e le ombre si allungavano nei vicoli intorno a Campo de’ Fiori. Bevevano un caffé, mangiavano qualche biscotto e per un’oretta non discutevano d’altro che non fosse la Magica, la Roma, la loro Roma, autentica passione di una vita. I fratelli Andreotti avevano questa consuetudine da molti anni e nessuno poteva disturbarli mentre commentavano l’ultima partita di campionato, il gol di questo o quel centravanti o la prodezza di questo o di quel portiere. Giulio non era, in quei momenti, il Presidente del Consiglio che doveva risolvere intricati problemi istituzionali, o il ministro degli Esteri alle prese con una delicata crisi internazionale. E Franco non era il suo fratello-consigliere. Semplicemente, in quell’oretta, erano due tifosi che tornavano bambini, quando andavano insieme a vedere le partite al campo di Testaccio, ricordavano, immaginavano, fantasticavano e si divertivano come matti.
MEMORIE Anche la sera del 15 maggio 1988 gli Andreotti si ritrovarono nell’appartamento di Franco, ma quella volta la conversazione fu più malinconica del solito. Sentivano entrambi che un’epoca si era chiusa e non riuscivano a vedere il seguito della storia. Poche ore prima, sul prato dell’Olimpico, Roberto Pruzzo aveva disputato la sua ultima partita con la maglia della Roma. Il Bomber, lo chiamavano così anche loro, se ne andava: aveva capito che non c’era più spazio, dopo dieci anni in giallorosso, e si accaserà alla Fiorentina. Giocò novanta minuti contro il Verona e l’arbitro Nicchi gli negò la gioia del gol: Pruzzo calciò a botta sicura, il difensore del Verona Volpecina respinse il pallone ben oltre la linea di porta, ma il direttore di gara non se ne avvide e fece proseguire la partita. Ci fosse stata la Var, negli anni Ottanta...
Parlandone con suo fratello Franco, il ministro degli esteri Giulio Andreotti scosse il capo e aggiunse: «Peccato, sarebbe stato un finale perfetto con quella rete». Ci pensò Lionello Manfredonia a risolvere la pratica in quell’ultima giornata di campionato: la Roma sigillò il terzo posto, mentre il Milan di Sacchi festeggiava lo scudetto sul lago di Como. Ma i fratelli Andreotti non si lasciarono coinvolgere dal presente e tornarono immediatamente a Pruzzo, a quello che aveva rappresentato per loro: il centravanti dello scudetto, innanzitutto. Lo ricordavano bene, quel maggio del 1983. Appena saputa la notizia del pareggio contro il Genoa, a Marassi, e avuta la certezza che il titolo era matematico, Giulio si complimentò con il presidente Dino Viola, suo grande amico, e organizzò il rientro della truppa nella Capitale. L’aereo sarebbe dovuto atterrare a Fiumicino, ma venne deviato su Ciampino, così Giulio potè raggiungere più velocemente i suoi eroi e stringere loro la mano. «Che giornata meravigliosa» disse Franco. «Altro che le partite al Testaccio!». Erano passati 41 anni dall’ultima gioia, bisognava festeggiare.
IMPRESA Pruzzo, di quella Roma, era uno dei simboli. Assieme al Barone Liedholm, logico, e a Di Bartolomei, a Bruno Conti e al divino Falcao, per il quale Giulio dovette scendere in campo quando l’Inter del presidente Fraizzoli si mise in testa di acquistare il brasiliano che aveva appena conquistato lo scudetto. L’intervento di Andreotti fu decisivo. E decisivo fu un parere che Giulio diede al presidente Viola quando, nell’estate del 1985, cercò di comprare Elkjaer dal Verona sacrificando Pruzzo. «Il Bomber ci può regalare ancora soddisfazioni» suggerì. Ed ebbe ragione: Elkjaer non fu preso, e Pruzzo vinse la classifica dei cannonieri. Lo fece a modo suo, con la testardaggine e lo spirito di rivalsa che diventarono carburante fondamentale nel suo corpo ormai non più giovane. Volle stupire tutti, prima ancora se stesso. E ci riuscì. Non portò la Roma allo scudetto soltanto per colpa di una dissennata partita contro il Lecce, ma quella sconfitta nulla toglieva alla sua impresa: dei 19 gol realizzati, 14 li fece nel girone di ritorno.
ATTESA La verità, a pensarci bene, era che a quel ragazzo venuto da Crocefieschi, idolo della folla, mancava sempre qualcosa per essere completamente felice. Vinse sì lo scudetto nel 1983, ma lo perse nel 1986, e soprattutto gli sfuggì la Coppa dei Campioni nella sfida infinita contro il Liverpool, terminata ai calci di rigore. Giulio e Franco ricordavano bene quegli attimi, gli occhi pieni di lacrime dei giocatori e degli spettatori che lasciavano l’Olimpico dopo la grande illusione. E per cancellare quella memoria dolorosa, adesso, si raccontavano di quanto fosse bella la Curva Sud per l’addio al Bomber. «C’era uno striscione enorme – disse Giulio – con scritto: 106 volte grazie. E poi 106 striscioni più piccoli con il nome Pruzzo». «Perché 106?» chiese Franco. «Il numero dei gol che ha segnato con la Roma in Serie A» rispose Giulio. «Sono tantissimi, chissà quanto dovremo aspettare per ritrovarne un altro come lui...». «Speriamo sia già nato – concluse Giulio – Noi due non siamo più dei ragazzini».