SportWeek, 2 settembre 2017
Colin Kaepernick, l’uomo che ha diviso l’America ed é diventato un simbolo politico
Quando lo ha fatto per la prima volta, nessuno se ne è accorto. Colin Kaepernick non era in uniforme per le prime due partite di preseason 2016 dei suoi San Francisco 49ers, e il suo rimanere seduto durante l’inno USA, il suo gesto di protesta contro le ingiustizie verso le minoranze e la brutalità della polizia, era passato inosservato. Il suo gesto non era stato notato, almeno inizialmente, nemmeno il 26 agosto 2016, quando, con addosso il numero 7 di una delle squadre più iconiche della Nfl, se ne era rimasto seduto in panchina accanto alle taniche d’acqua mentre al Levi’s Stadium, prima della sfida di preseason tra i suoi 49ers e i Green Bay Packers, risuonavano le note The Star Spangled Banner, l’inno degli Stati Uniti che lo sport più amato e patriottico d’America onora prima di ogni gara. Quando Kap però ha spiegato perché era rimasto seduto, il suo mondo è cambiato per sempre. «Non mi alzerò in piedi per mostrare orgoglio e rispetto per la bandiera di un Paese che opprime i neri e le persone di colore», aveva rivelato al sito della Nfl il giorno dopo quella partita. «Per me tutto questo è molto più importante del football e sarebbe egoista da parte mia voltarmi dall’altra parte. Ci sono corpi nelle strade e gente che la fa franca nonostante abbia commesso degli omicidi. Io non sono lo strumento di nessuno e non sto cercando l’approvazione di nessuno, ma sento di dover difendere le persone che sono oppresse».
EROE O RIBELLE?
Kaepernick oggi ha 29 anni, è nato da mamma bianca e papà nero ed è stato adottato da una famiglia di bianchi del Wisconsin. Ha ripetuto il suo gesto per tutta la scorsa stagione, anche se l’ha modificato inginocchiandosi dietro i compagni, per rispettare quelli che hanno combattuto per la libertà dei neri. «Non sono anti-americano», ha ripetuto più volte Kap nell’ultimo anno, prima di smettere di parlare con la stampa. «Amo l’America, amo la gente di questo Paese e voglio contribuire a renderlo un posto migliore». Per alcuni è un eroe, un simbolo della lotta per i diritti civili. Per altri un ribelle senza rispetto, che ha disonorato la nazione e la bandiera. Kap è polarizzante quanto l’America di Trump, dove sei o prò o contro, dove concetti come supremazia della razza bianca e nazismo tornano in piazza mentre i neri e le minoranze protestano, anche nel nome di Kap, per le ingiustizie che subiscono. Quest’America divisa sogna che, quando si siede sul divano a guardare il suo sport preferito, la politica ne resti fuori. Per tutto l’anno, Kaepernick le ha ricordato che non era possibile.
«Penso che il suo sia un gesto davvero terribile – aveva detto di lui Donald Trump quando era ancora un semplice candidato repubblicano al quale Kap aveva pubblicamente dato del razzista -. Forse dovrebbe trovare un Paese più adatto a lui». Quella era l’America delle proteste di piazza per la brutalità e i pregiudizi della polizia contro, soprattutto, gli afroamericani («Come membro delle forze dell’ordine posso confermare che quel pregiudizio esiste in tutto il nostro sistema giudiziario», ha confermato Edwin Raymond, sergente della polizia di New York che con 80 colleghi sabato 19 agosto ha marciato al Brooklyn Bridge Park nel nome di Kap).
DIMENTICATO
Kaepernick è diventato un simbolo anche perché quella protesta potrebbe essergli costata la carriera. A marzo è uscito dal contratto con i 49ers, la squadra che quattro anni fa aveva trascinato al Super Bowl: da quando è free agent non l’ha cercato praticamente nessuno. I Seattle Seahawks l’hanno scartato perché volevano una riserva e «Kap meriterebbe di essere titolare», ha detto coach Pete Carroll. Il patron ultraconservatore dei Baltimore Ravens, Steve Bisciotti, aveva chiesto ai tifosi di «pregare per la squadra» mentre la dirigenza valutava l’idea di ingaggiarlo, prima di declinare. Da marzo a fine agosto le 32 franchigie Nfl hanno messo sotto contratto 33 quarterback, compreso uno che si era già ritirato: Kap, che non è più il QB esplosivo di 4 anni fa ma ha talento sufficiente quantomeno per entrare in un roster, continua a guardare il football in tv. Nonostante nei ranking di Espn il suo valore sia esattamente lo stesso di un anno fa, prima che cominciasse la sua protesta. «La sua abilità in campo non c’entra», ha confidato recentemente al network sportivo Usa un dirigente Nfl, rimasto anonimo. «Nella valutazione su di lui pesa il rischio di stravolgere il concetto di squadra mettendo sotto contratto un giocatore, soprattutto un quarterback, il fulcro dell’attacco nel football, che pone i propri obiettivi personali al di sopra tutto, mentre noi vogliamo che per i nostri atleti la squadra venga al primo posto. Per uno con le sue qualità, uno che forse merita di essere titolare ma che ha bisogno che l’attacco sia costruito attorno alle sue caratteristiche, non vale la pena rischiare tanto. Non disapprovo quello che ha fatto: lo capisco benissimo e supporto tutti quelli che difendono una causa. Solo che il posto di lavoro non è il posto giusto per prendere posizioni politiche».
L’OSTRACISMO DEI CONSERVATORI
«Kaepernick è senza squadra perché i proprietari della Nfl hanno paura di un mio tweet contro di loro», sentenziava in marzo il presidente Trump. La sua è la voce provocatoria di quella parte di America che non ha gradito la protesta del quarterback. Perché il football, una lega composta al 74% da giocatori afroamericani in cui la stragrande maggioranza dei proprietari è bianca e conservatrice (i New England Patriots, campioni in carica, hanno regalato un anello speciale all’inquilino della Casa Bianca), si è diviso mentre Kap si inchinava durante l’inno. E con gli indici di gradimento tv pericolosamente puntati verso il basso, una parte dei tifosi ha dato la colpa proprio alla sua protesta, a quel suo portare la politica nel momento in cui nessuno voleva vederla. Per questo, mentre i suoi cimeli sono esposti al museo Smithsonian di Washington, nella collezione di Black Lives Matter («Kaepernick è il Muhammad Ali di questa generazione di sportivi» ha detto di lui Harry Edwards, l’attivista dei diritti civili che ha comprato i suoi memorabilia per donarli al museo) e Kap è diventato il giocatore più chiacchierato e riconosciuto dell’Nfl, non ha ancora un contratto. Non importa che il suo esempio sia stato seguito da tanti altri e che lunedì 21 agosto, tra i tanti giocatori dei Cleveland Browns inginocchiati durante l’inno, ci fosse anche un bianco: il football continua a girare alla larga dal suo QB ribelle. «Se per quello che ho fatto perderò il football, se gli sponsor smetteranno di cercarmi, saprò comunque di aver fatto la cosa giusta», diceva Kaepernick dopo la prima gara in cui la sua protesta venne notata. Il 7 settembre, quando comincerà la Nfl 2017, Kap rischia di non essere nel roster di nessuna delle 32 franchigie. Ma quello che ha fatto su un campo di football, quel suo inginocchiarsi durante l’inno nazionale, quel suo continuare a fare sentire la propria voce anche quando nessuno voleva sentirla, l’ha reso un simbolo. Più di un touchdown. Più di una giocata vincente. Più di un Super Bowl.