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 2017  settembre 09 Sabato calendario

Fino a quando c’è speranza? Intervista a Rita Formisano

Chi sostiene il diritto a morire con dignità quando il corpo non risponde più, e a volte neanche la testa, viene accusato di non rispettare la vita. Perché la vita è vita sempre, in qualsiasi condizione. Anche in stato vegetativo? Anche quando il coma impedisce di parlare, di rispondere, di muovere persino le palpebre? Se in futuro potremo scegliere di lasciare il nostro testamento biologico, di esprimere il nostro volere prima che un incidente o una malattia ci impediscano di farlo, non dovremmo però firmarlo sulla scia dell’emozione, avverte la dottoressa Rita Formisano, direttore del reparto di Riabilitazione neuropsicologica della Fondazione Santa Lucia di Roma. Con cui abbiamo cercato di capire se e quando ha senso aspettare un risveglio dal coma, senza alimentare false speranze.
A che punto possiamo parlare d’irreversibilità?
Nel caso di stati vegetativi post-traumatici un risveglio si può avere fino a un anno dal trauma cranico, negli altri casi (ipossia cerebrale, ictus, infezioni come la meningite, intossicazioni da monossido di carbonio per cattivo funzionamento d’impianti di riscaldamento eccetera) entro
tre-sei mesi, altrimenti le possibilità di recupero diventano sempre più scarse.

Come avviene il risveglio?
I primi segni di recupero della coscienza consistono nel seguire con lo sguardo le persone accanto, nel mostrare delle reazioni emozionali come sorridere o piangere, nel manipolare degli oggetti, nell’eseguire alcuni comandi semplici,
o sussurrare qualche parola. È questa la condizione che viene definita stato di minima coscienza, che spesso ha dei confini molto sottili con lo stato vegetativo, anche perché queste prime reazioni in genere il paziente le mostra con i familiari,
ma non con i sanitari, né con l’équipe riabilitativa. Ci sono studi scientifici che dimostrano che l’errore diagnostico tra stato vegetativo e stato di minima coscienza può raggiungere il 40 per cento.

Quali sono poi le effettive opportunità riabilitative?
Il miglioramento delle tecniche in rianimazione e neurochirurgia negli ultimi 30 anni ha invertito le percentuali di sopravvivenza dei pazienti comatosi: da 30 all’attuale 70 per cento. Un paziente su tre può raggiungere un buon recupero, con una riabilitazione specifica
e multidisciplinare (motoria, respiratoria, cognitivo-comportamentale eccetera).

Esistono isole di coscienza durante il coma?
Negli ultimi anni alcune ricerche hanno dimostrato che una minoranza di pazienti, diagnosticati clinicamente come in stato vegetativo, era in grado di eseguire alcuni compiti d’immaginazione mentale con l’attivazione delle stesse aree cerebrali dei normali. La quasi totalità dei pazienti non ricorda nulla del coma e spesso anche del periodo successivo al risveglio. I famosi «tunnel» o «luci» raccontati da alcuni sono
da riferire al periodo di confusione post-traumatica, in cui si sperimentano condizioni simili al sogno.
Cosa succede al cervello in stato vegetativo?
Solo una minima percentuale di persone
in stato vegetativo mostra aree di attivazione cerebrale significative, ma talvolta é difficile distinguerli dai pazienti con sindrome di locked-in che sono tetraplegici, hanno una paralisi della bocca e quindi non possono parlare né deglutire, ma sono coscienti e generalmente (ma non sempre) riescono a comunicare attraverso la chiusura delle palpebre e i movimenti degli occhi. Eppure, secondo studi internazionali alcuni pazienti
in locked-in riferiscono una qualità di vita sorprendentemente soddisfacente, basti pensare alla giornalista francese Jean-Dominique Bauby che ha scritto un libro muovendo solo le palpebre.
Che percezione del dolore hanno queste persone? Può l’eutanasia causare loro sofferenza?
Nei pazienti con stato di minima coscienza esiste una percezione del dolore simile ai soggetti normali, mentre negli stati vegetativi i dati non sono univoci. Calcolando comunque l’alta percentuale di errore diagnostico tra stato vegetativo e stato di minima coscienza, esistono raccomandazioni internazionali sull’uso di farmaci antidolorifici in tutti i pazienti con disordine della coscienza. È strano che questi non siano stati utilizzati nel caso Terri Schiavo (41enne americana in stato vegetativo persistente che nel 2005 ottenne l’eutanasia dopo 15 anni di battaglie legali, ndr).
Che parametri possiamo utilizzare per decidere se e quando «staccare la spina»?
Valutare la qualità della vita di una persona non più autonoma, e vale anche per pazienti affetti da paraplegia, sclerosi multipla, morbo di Parkinson o demenza di Alzheimer, è estremamente difficile da parte di chi può condurre una vita normale. Nella stragrande maggioranza dei casi poi non c’è nessuna «spina» da staccare perché i pazienti con disturbo della coscienza respirano senza l’ausilio
di macchinari e quindi si tratta piuttosto
di smettere di dare loro cibo e acqua.

Quando si può parlare di accanimento terapeutico e quando invece si tratta solo di dare al paziente delle possibilità di sopravvivenza?
L’accanimento si ha quando le manovre rianimatorie vengono prolungate per tempi più lunghi di quanto previsto dai protocolli o, nelle fasi successive, quando si sottopone uno stato vegetativo cronico a interventi chirurgici invasivi salvavita, anziché limitarsi a terapie di sollievo.

Ha mai ricevuto richieste di eutanasia?
No, anzi al contrario ho sperimentato sempre tanta rabbia e talvolta persino aggressioni quando alcuni dei nostri pazienti non ce la facevano. Si corre insomma più il rischio di essere accusati di non aver fatto abbastanza, mai di aver fatto troppo.