La Stampa, 15 settembre 2017
I quindici anni del Tar Lazio per decidere su una parola
Quanto tempo è necessario per decidere su una parola? Ai giudici del Tar Lazio sono serviti 15 anni per sentenziare sulla differenza tra «tariffa» e «tariffa massina», dando infine torto al Comune di Roma, Regione Lazio e azienda municipale dei rifiuti (Ama) e condannando quest’ultima a pagare 37 milioni di euro a Manlio Cerroni, «il re dei monnezzari».
La vicenda si riferisce a uno dei numerosi contenziosi aperti da Cerroni, che periodicamente invoca aumenti delle tariffe e lamenta costi imprevisti. Insomma batte cassa. Tra arbitrati e ricorsi giudiziari, questa strategia gli ha garantito negli ultimi decenni lucrosi risarcimenti.
Ora il Tar Lazio si pronuncia su un ricorso nato nel 2002, quando la Regione Lazio autorizzò per altri quattro anni la famigerata discarica di Malagrotta, la più grande d’Europa. Il decreto fissava a 34,36 euro per ogni tonnellata di rifiuti la «tariffa massima» da pagare al proprietario Cerroni. E su quell’aggettivo scattò il ricorso. Secondo «il re dei monnezzari» e i suoi avvocati, quella parola era di troppo. Illegittima, abusiva. La «tariffa» era senza aggettivi.
Formidabile questione da legulei, così sintetizzata dal Tar: «Evidentemente nel primo caso è possibile, in sede di convenzione tra le parti – gestore della discarica e soggetto che nella stessa deve conferire -, stabilire un prezzo di accesso inferiore, essendo stato fissato solo l’importo massimo, da non superare, mentre nel secondo caso viene indicata una tariffa, non contrattabile».
La disputa non è di natura linguistica, ma banalmente economica. Forte della previsione di una tariffa massima, l’Ama era riuscita a ricalcolarla al ribasso: 24,32 euro, con un risparmio quasi del 30%. Viceversa – tesi Cerroni – la previsione di una tariffa tout court, senza aggettivi, implica che il prezzo è giusto, immodificabile.
Ulteriore complicazione filologica: la legge di riferimento, la numero 27 del 1998, non parla né di «tariffa» né di «tariffa massima», ma di «tariffe» al plurale.
Dopo quindici anni, il Tar sentenzia: vince Cerroni. «L’uso del plurale – argomentano i giudici – non può logicamente indurre ad affermare che possa essere stabilita una tariffa massima: è proprio il termine tariffa a determinare il convincimento che debba trattarsi di un prezzo fissato e non modificabile; la motivazione è evidentemente quella di garantire un servizio di smaltimento adeguato, mediante la copertura dei costi sostenuti e la previsione di un margine di profitto».
Per decidere l’entità del risarcimento dovuto a Cerroni, il tribunale si è poi rivolto nientemeno che al Direttore generale dell’Ispettorato generale del Bilancio della Ragioneria generale dello Stato. Il quale, nella sua veste di «soggetto verificatore», dopo un anno di calcoli «ha depositato un’articolata relazione, corredata di tutta la copiosa documentazione relativa alla verificazione» e «contenente la puntuale quantificazione del danno».
Ovvero 37 milioni di euro, che rappresentano la differenza tra «tariffa massima» e «tariffa» effettivamente pagata per 27 mesi tra il 2002 e il 2005 (poi il prezzo fu aggiornato).
La discarica di Malagrotta, sebbene chiusa dal sindaco Ignazio Marino nel 2013, è tutt’altro che una storia finita. Cerroni, che per i liquami sversati dalla discarica è sotto processo per disastro ambientale, sostiene che potrebbe essere ancora utilizzata per i rifiuti romani. E quindi non avvia la bonifica, per cui tra l’altro chiede altri quattrini. E avanti così tra ricorsi, cavilli e sentenze, alimentando quella che lunedì il presidente dell’Anticorruzione Raffaele Cantone ha definito in Parlamento una situazione «paradigmatica» di un settore in cui si fanno «grandissimi affari» grazie al «sistematico mancato rispetto delle regole della trasparenza e del codice degli appalti dovuto all’esistenza di monopoli di fatto insuperabili».