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 2017  settembre 14 Giovedì calendario

Giudici di pace, nuova legge e solita cagnara

La legge è uno strumento difficile da maneggiare. Quando se ne fa scarso uso, la vita della collettività diventa rapidamente difficile, i forti opprimono i deboli e alla fine la violenza dilaga; quando se ne fa troppo uso, la legge stessa diventa inefficiente, le sentenze arrivano quando non servono più e le conseguenze sono analoghe: sopraffazione e violenza. E però è difficile non garantire l’intervento della legge anche nei casi minori, quelli che gli animali risolvono con un ringhio o un morso ben assestato: gli umani, animali evoluti, hanno perso la capacità di utilizzare correttamente queste soluzioni naturali e un piccolo contrasto può portare a conflitti gravi e prolungati. Da qui la panpenalizzazione (con tutto l’armamentario processuale che caratterizza il processo penale) e la previsione di giudizi civili (analogamente complessi) anche per controversie di minimo valore.
In Gran Bretagna il problema è stato risolto con il consueto pragmatismo anglosassone. Gli scienziati del diritto (i giudici) si occupano solo delle questioni complesse; nel 95% delle questioni penali si ricorre ai giudici di pace e, nell’80% di quelle civili, ai giudici circondariali. I giudici di pace sono normali cittadini, in genere senza una specifica formazione giuridica; non sono pagati, lavorano poco (in genere 26 mezze giornate all’anno) sono ovviamente tantissimi e si occupano di reati ordinari: furti di piccola entità, danneggiamenti, contravvenzioni stradali e tantissimi altri mini reati. I giudici circondariali sono sostanzialmente giudici di serie B: trattano le questioni civili meno complesse e possono essere nominati «a tempo» (un minimo di 5 anni). Questa organizzazione risponde a un concetto di giustizia che tiene conto della difficoltà di far coincidere l’ottimo con il possibile: serve un metodo per regolamentare le controversie tra cittadini e arginare la delinquenza; nei casi meno complessi si rinuncia alle profonde garanzie della moderna giurisdizione occidentale e ci si accontenta di una sentenza pur che sia. L’importante è interrompere i conflitti, il che in Gran Bretagna avviene perché nessuno si sogna di contestare le sentenze. Delle cose serie si occupano giudici professionisti; le sentenze sono rapide e l’economia del Paese se ne avvantaggia.
L’Italia scopre il giudice di pace nel 1991 (c’erano stati pochi significativi precedenti): i processi sono troppi, l’arretrato cresce, le sentenze tardano. E, naturalmente, adotta la soluzione sbagliata. Non un sistema diverso da quello ordinario, riservato alle situazioni di minore complessità e importanza e affidato a cittadini comuni, volontari civili autorevoli e non retribuiti (o anche sì, magari poco, ma è un dettaglio); ma una semplice separazione di competenze: alcuni reati e controversie civili di valore modesto devono essere giudicati dal giudice di pace. Sostanzialmente però (e qui sta il problema) con lo stesso tipo di processo utilizzato per i giudizi ordinari: primo grado, Appello e Cassazione e connesse garanzie processuali. Sicché, si capisce bene, non si accetta che le questioni bagatellari abbiano una trattazione semplificata; si moltiplica il numero dei giudici. Giudici per modo di dire, in realtà: preparazione incerta (semplici laureati in giurisprudenza), nessuna scuola di specializzazione, nessun concorso (è previsto un concorso per titoli: serve per stabilire una graduatoria tra quelli che vogliono fare il giudice di pace e per verificare che, almeno, abbiano i requisiti previsti dalla legge). Insomma si è adottato il sistema dell’orda mongola (me ne parlava spesso un ingegnere informatico, che mi spiegava perché la realizzazione di un programma non poteva essere abbreviata più di tanto): non serve aggiungere gente pur che sia, servono persone qualificate. Concetto ben compreso dagli avvocati, stretti in un drammatico dilemma: non vogliono i giudici di pace perché non attrezzati per risolvere complessi problemi giuridici; ma non vogliono nemmeno una declassificazione dei processi bagatellari che comporta (Gran Bretagna docet) la non necessità dell’assistenza di un avvocato.
Anche la gestione amministrativa del giudice di pace italiano risente naturalmente dell’impostazione di fondo: se sono giudici come gli altri, sia pure con una competenza limitata, dovrebbero essere considerati pubblici funzionari. Dunque stipendio, previdenza sociale, assicurazione sanitaria, orario di lavoro, ferie, progressione in carriera. Ma no: il giudice di pace italiano stabilisce autonomamente il suo orario di lavoro, dal che deriva che la sua paga è sostanzialmente un compenso a cottimo; il che ne fa un lavoratore precario, senza pensione né Tfr. E, siccome può anche fare un altro lavoro (di norma fa l’avvocato), quasi tutti lavorano a tempo parziale; così se ne devono assumere altri, in un circuito vizioso che porta a un’orda mongola gigantesca.
Adesso è arrivata una nuova legge: il giudice di pace lavorerà come assistente del giudice professionista. Attività delegata, si chiama: interrogherà i testimoni, farà ricerche di giurisprudenza, scriverà alcune sentenze, tutto sotto la supervisione (teorica) del giudice. Ma potrà anche gestire autonomamente i processi. Insomma, una vera e propria moltiplicazione del numero dei giudici. Che non abbiano studiato quanto necessario, che non abbiano sostenuto un concorso per il quale il giudice ordinario si prepara per 4/5 anni (tra scuola di specialità e preparazione del concorso) non importa niente a nessuno. Così come nessuno coglie la singolarità di un orario di lavoro limitato a un massimo di due giorni alla settimana, per i quali tuttavia sono pagati 16.500 euro all’anno, 1.200 euro al mese, non pochissimo per un semplice laureato che può anche cumulare altro o altri lavori nei restanti 5 giorni.
Resta il fatto che il sistema è profondamente sbagliato. Ancora una volta ci si è fatti condizionare dall’incapacità di pensare in maniera innovativa e dalla paura di affrontare la lobby degli avvocati che, nell’istituzione del giudice di pace, vede insieme un’occasione di secondo lavoro e la sicurezza di poter contare su un numero invariato di processi. Il risultato è lo sciopero dei giudici di pace e nessuna concreta soluzione al principale problema della giustizia italiana: l’abnorme numero dei processi. Suggerimenti? Un corso accelerato, riservato al ministro della Giustizia e ai suoi consiglieri, da effettuarsi in Gran Bretagna, con stage pratici negli uffici della Justice of Peace e dei District Judges.

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L’ULTIMA BOUTADE DEL MINISTRO ORLANDO
Con il nuovo decreto previsti anche pagamenti in natura
Preferisce un pagamento in prosciutti o casse di pomodori? O preferisce qualche buona bottiglia di Barbera? Sul Web i commenti ironici dei giudici si sprecano sull’ultima castroneria contenuta nella riforma della magistratura onoraria, che nel capitolo riguardante il regime fiscale accenna a pagamenti in natura. Così si legge nell’articolo 26 del decreto legislativo, che completa l’attuazione della legge delega di riforma della magistratura onoraria (approvata nella primavera del 2016 dal Parlamento). L’articolo stabilisce che i magistrati onorari sono lavoratori autonomi e che i loro redditi «sono costituiti dall’ammontare delle indennità in denaro o in natura percepite nel periodo d’imposta». Cosa intenda il legislatore con questo passaggio non è dato sapere. Di sicuro è solo uno dei tanti strafalcioni contenuti nella riforma fortemente voluta dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando, da mesi contestata dalle toghe di tutta Italia, secondo le quali il ministro è venuto meno a tutti gli impegni assunti, facendo approvare una riforma della magistratura onoraria che segnerà il de profundis della giustizia in Italia.
La novità sui compensi in natura è stata, ovviamente, la goccia che ha fatto traboccare un vaso già colmo, scatenando nuove proteste dei giudici precari. «Questo decreto è indecifrabile», ha dichiarato Paola Bellone, portavoce del Movimento 6 luglio per la riforma della magistratura onoraria. «Non si capisce quali possano essere i pagamenti in natura compatibili con il nostro ruolo. Ma la riforma è piena di sbavature e incongruenze. Come la qualifica che ci viene data di lavoratori autonomi».
La verità, accusano i magistrati, è che il ministro Orlando non vuole stabilizzare la magistratura precaria. Meglio la giustizia un tanto al chilo. Di prosciutti o pomodori, fate voi.