Libero, 11 settembre 2017
Il governatore Stefano Bonaccini: «Le Regioni leader hanno diritto all’autonomia»
Tra la via Emila e il West, ma forse siccome sono cambiati i tempi, sarebbe meglio dire tra la via Emilia e l’Europa, non ci sta più Francesco Guccini, emigrato sull’Appennino toscano. Adesso c’è Stefano Bonaccini, l’uomo preferito da Renzi perfino al suo portavoce, Matteo Richetti, per guidare la Regione simbolo del Pd. Allora si disse che fu un omaggio a Bersani, ma come detto i tempi sono cambiati, e Bonaccini è rimasto saldo in sella. In posizione molto favorevole, si capisce dal fatto che schiva con grande abilità le questioni di bassa politica e le beghe di partito. Lui vola alto, tanto la via Emilia è spianata: Bersani e gli altri si sono uccisi da soli, e se anche Renzi e il Giglio Magico dovessero sfiorire, a lui non si scompiglierebbero i capelli, neppure se la criniera fosse più folta. La sua forza sono il partito e la Regione, che riempie di attenzioni. La definisce una locomotiva, per restare alle suggestioni gucciniane, ma non si capisce se Maroni e Zaia, i colleghi governatori del nuovo triangolo industriale Milano-Bologna-Venezia, siano dei compagni di strada sulla via dell’autonomia e dell’Europa in prima classe o non piuttosto gli anarchici che possono farlo deragliare.
Presidente Bonaccini: sull’onda dei referendum di Lombardia e Veneto soffia un vento autonomista anche in Emilia. Se lo aspettava e come lo spiega?
«C’è una cosa che mi accomuna a Maroni e Zaia: l’idea che in questo Paese sarebbe giusto che le regioni virtuose e con i conti in ordine possano essere premiate. Dopodiché sarebbe utile concentrarsi sullo strumento da utilizzare per provare a raggiungere l’obiettivo. Anche perché è evidente il carattere propagandistico del referendum di Lombardia e Veneto ed il tentativo di piegare la loro consultazione di ottobre ad un plebiscito da spendere alle politiche la prossima primavera quando si voterà. Altrimenti non si spiega il perché la Lega in particolare non abbia concesso maggiore autonomia alle Regioni quando governava il Paese, contemporaneamente alle due Regioni in questione».
Cosa farà per rispondere alla richiesta di maggiore autonomia?
«Noi stiamo già facendo, convinti che una maggiore autonomia gestionale ci garantirebbe possibilità di crescere ulteriormente e se cresciamo noi cresce meglio anche il Paese, visto che ne siamo una delle locomotive. Per fare questo, abbiamo deciso di intraprendere la via Costituzionale attraverso l’articolo 116. Abbiamo individuato le macroaree su cui chiedere più competenze: lavoro e formazione, impresa, ricerca e sviluppo, territorio e ambiente, salute. Contiamo già a fine settembre di avere pronta la proposta definitiva».
Non sarebbe più semplice importare i referendum lombardo e veneto anziché suggerire una nuova diversa autonomia: meglio pensare al risultato che sofisticare cercando il meglio?
«Noi non cerchiamo il meglio o il peggio, cerchiamo una soluzione credibile. Non basta domandare ai cittadini se vogliono più autonomia, che è un po’ come chiedere se vuoi bene a tua mamma. Bisogna entrare nel merito e specificare le competenze sulle quali chiedere maggiore autonomia e, in ragione di queste, quali risorse trattenere per poterle gestire. Anche perché alla fine di questo percorso, per poterla ottenere, deve essere approvata dal Parlamento una legge a maggioranza assoluta. E se chiedi di avere maggiore autonomia su tutte le competenze o di trattenere il residuo fiscale per decine di miliardi di euro non significa maggiore autonomia, ma secessione, anche perché nessun governo la concederebbe».
È molto polemico con i referendum leghisti: la mettono in crisi?
«Proprio no, anche perché nella mia Regione la Lega ha gettato la maschera, perché ha chiesto di indire un referendum per la secessione della Romagna dall’Emilia, altroché autonomia. Si figuri, siamo la Regione che da due anni è prima per crescita nel Paese e lo saremo anche alla fine del 2017, primi per tasso di occupazione, la disoccupazione scesa in due anni dal 9 al 6.5% e primi ora anche per quota di export pro capite. Sfido la Lega e la destra della mia Regione: si presentino alle elezioni regionali tra due anni con la proposta di separazione tra Emilia e Romagna nel programma elettorale, così i cittadini potranno esprimersi compiutamente non attraverso un referendum consultivo ma delle elezioni vere e proprie».
Perché l’Emilia ha in parte un’anima a suo modo leghista?
«L’Emilia-Romagna ha un’anima solidale, che guarda al mondo, per crescere, contaminare e lasciarsi contaminare. Dopodiché storicamente fu la sinistra che in questo Paese pose la questione delle autonomie locali, a maggior ragione in una terra come la mia dove la sinistra è al governo della Regione da oltre 40 anni, ovviamente con maggioranze ed alleanze che si sono modificate di pari passo con le trasformazioni del quadro politico. Qui gli asili nido o i primi villaggi artigiani, si fecero mica aspettando il via libera da Roma. Ma a differenza della Lega noi abbiamo sempre collocato la valorizzazione delle autonomie locali in un quadro di sacralità dell’unità nazionale».
Lei governa una delle regioni più efficienti d’Italia: in cosa, secondo lei, il gap col Mezzogiorno sta aumentando piuttosto che diminuire?
«Dopo 17 anni di euro senza politiche industriali comuni e di globalizzazione senza regole si è andata consolidando nell’Europa centrale un’area molto compatta che comprende anche parte del Nord Italia. Un’area fortemente industrializzata che produce macchine e sistemi di produzione flessibile, oggi alla base dell’industria 4.0, in cui si è generata una forte capacità di sviluppo di competenze industriali. Il consolidarsi di quest’area ha aumentato le disparità fra territori. Ciò che è aumentata in questi anni, in Emilia-Romagna e in questo cuore d’Europa, e che continua ad aumentare, è proprio la capacità strategica di generare competenze diffuse di carattere industriale e innovazione».
L’Emilia-Romagna è diventata molto vitale imprenditorialmente: è perché non esiste più il regime unico delle Coop?
«La vitalità nasce da una consolidata tradizione in una terra dove peraltro l’ossatura è data sì dall’industria, ma soprattutto dalla piccola e media impresa. Tradizione che oggi si è rafforzata grazie al Patto per il Lavoro che all’inizio della legislatura, nel luglio 2015, ho proposto a enti locali, imprese, sindacati, università e associazioni del Terzo settore con l’obiettivo comune di raggiungere un traguardo: creare sviluppo e buona occupazione. Tutti hanno aderito al Patto e la capacità di istituzioni, parti sociali, sistema economico imprenditoriale di lavorare insieme delineando il modo in cui competere, come sistema, a livello globale, si sta rivelando vincente».
Alle prossime elezioni non vincerà nessuno e l’Italia sarà governata dai mercati e da Bruxelles: sono le Regioni il nuovo centro del potere in Italia?
«A prescindere da quello che succederà a Bruxelles e a Roma, in epoca di globalizzazione tornano a essere centrali i territori. I territori non intesi come confini amministrativi, ma come comunità che esprimono identità, vocazioni e specializzazioni. Asset territoriali che, se sostenuti da politiche regionali e nazionali adeguate, diventano competitive a livello internazionale».
Con quali competenze e poteri: immagina un federalismo?
«Sì, un federalismo a perimetro variabile che, applicando la Costituzione, porti a più autonomia e autogoverno per quelle Regioni che hanno dimostrato capacità in termini di bilancio, di politiche e di coordinamento strategico dei soggetti e delle potenzialità dei territori. È la strada che ha scelto l’Emilia-Romagna. Un’autonomia, però, che favorisca questi territori nel loro ruolo di traino e locomotive dell’intero Paese, che indichi una strada possibile a tutte le Regioni. Ciò permetterebbe alle Regioni meglio posizionate nel nuovo contesto europeo di diventarne leader, e alle altre di agganciarsi a questi processi di aggiustamento strutturale, ricompattando il Paese in una strategia di crescita articolata ma unitaria e solidaristica».
Maroni chiede i poteri dello Stato siciliano: presenza in CdM, residuo fiscale e poteri di polizia: le piacerebbero?
«Ma la Lega non era quella che diceva che esistevano troppe regioni a statuto speciale in Italia? Mi sono perso qualcosa?».
Sulla questione dei rifugiati il governo, secondo lei, si è mosso bene e per tempo?
«Si sta muovendo nella giusta direzione. Con la nomina a ministro di Minniti c’è stato a mio parere un netto salto di qualità. Basti guardare per esempio al drastico calo degli sbarchi. Le tensioni nei Comuni erano tante e c’era bisogno di fissare dei limiti per poter mettere in pratica un’accoglienza responsabile e davvero efficace, perché sia chiaro, non si alzano muri, né i muri si evocano. Farlo vuol dire una sola cosa: fare facile populismo, alla caccia di qualche voto».
Si rivede più nelle tesi legalitarie di Marco Minniti o in quelle più solidaristiche del suo corregionale Graziano Delrio?
«Le due cose non sono contrapposte e possono integrarsi benissimo. Insieme, dunque mi rivedo nelle politiche che il governo Gentiloni sta esercitando, del quale Marco Minniti e Graziano Delrio sono peraltro tra i ministri più apprezzati. Io la penso così: abbiamo il dovere di soccorrere e salvare ogni singola vita umana, ma non il dovere di accogliere tutti, come ha detto efficacemente Matteo Renzi, perché nessun Paese al mondo da solo può accogliere chiunque. Ecco perché servono politiche di aiuto e cooperazione anche e soprattutto in quei Paesi da cui si fugge, ricordando che proprio con la destra al governo furono azzerati i fondi per la cooperazione internazionale. Così come è necessario che l’Europa tutta faccia la propria parte, al contrario di ciò che è avvenuto fino a ora».
Quanto avverte l’emergenza sicurezza dopo lo stupro di Rimini e cosa fa per combatterla?
«La sicurezza è un problema avvertito come prioritario dalle nostre comunità. Anche se i dati non segnalano aumenti di crimini o di reati, dobbiamo tenere conto anche di percezioni e timori dei nostri cittadini. Le nuove regole di Minniti sulla sicurezza urbana e i maggiori poteri ai sindaci vanno nella giusta direzione. Senza voler trasformare la funzione di governo solo in ordine e sicurezza, occorre tenere conto e gestire qualsiasi problema minacci la coesione sociale».
Gli stupratori di Rimini sono immigrati regolari: l’integrazione è più dura del previsto?
«Ho subito detto che una volta consegnati i responsabili di reati così odiosi alla giustizia, che ci auguriamo faccia il suo corso il più rapidamente possibile e senza sconti, la Regione Emilia-Romagna si costituirà parte civile. Dopodiché, ha colpito anche il fatto che si tratti di giovani nati qui. Sta emergendo un fenomeno preoccupante: ragazzi nati qui ma che vivono con grande sofferenza le differenze che li riguardano negli stili di vita e nelle aspettative rispetto ai ragazzi italiani e quindi accumulano rabbia e isolamento. Ecco perché, più in generale, solo una integrazione seria orientata alla scuola, alla formazione e al lavoro può evitare l’isolamento».
Dovremmo revocare la cittadinanza agli immigrati che delinquono anziché fare una legge sullo ius soli?
«La legge sullo ius soli che tra l’altro prevede requisiti e parametri piuttosto severi per concedere la cittadinanza è una battaglia sacrosanta, che nulla ha a che vedere con gli sbarchi e i rifugiati. Chi vive e cresce qui e dimostra di conoscere e rispettare i nostri valori ha diritto di sentirsi cittadino italiano. Chi delinque, invece, va espulso e sottoposto a ciò che prevede la legge».
La sinistra ha criticato la polizia che ha sgomberato i profughi dalle case occupate malgrado si sia dimostrato che avevano trasformato la casa occupata in un albergo su cui lucravano: non stiamo esagerando?
«Chi ha occupato illegalmente un immobile deve sapere o aspettarsi che ci sia uno sgombero. Altrimenti creiamo una profonda iniquità rispetto a chi rispetta le regole, paga un affitto e si barcamena per vivere. Dopo i fatti di Roma, il ministro Minniti ha subito avviato un lavoro per arrivare a linee guida per soluzioni condivise e non così traumatiche per risolvere la situazione di stabili occupati, situazioni che devono tornare nella legalità salvaguardando diritti e dignità delle persone».
Bologna è la capitale delle moschee italiane. Ravvisa nella comunità islamica una maggiore difficoltà di integrazione rispetto ad altre comunità di immigrati?
«I comuni esercitano un’attività di controllo sulle sale e i luoghi di culto. Occorre chiedere la massima trasparenza sui finanziamenti e sugli immobili che dovrebbero essere svolti già in Italia. Dopodiché io sono per una società multiculturale veramente democratica, in cui il dialogo con i musulmani moderati, non certo con chi professa posizioni di estremismo, sia proficuo e in cui ognuno sia libero di esercitare la propria fede. Il dialogo avviene prima di ogni cosa con una persona, fra le persone, al di là della fede, della provenienza, e in un contesto di regole condivise. Chi non riconosce le regole del nostro ordinamento non può che essere trattato come una persona che vìola la legge. Ma questo è valido per chiunque».