La Stampa, 9 settembre 2017
Intervista alla designer basca Patricia Urquiola: «Anche per i mobili ci vuole una rivoluzione digitale»
Tra i tanti oggetti che Patricia Urquiola ha disegnato c’è una poltrona che si chiama Gender: «È una specie di manifesto, giocato tra il rigore della struttura e l’uso disinvolto del colore. Il genere è un tema con tante sfumature: architettura e design non possono essere definite dai concetti di maschile e femminile. Anche Cassina, che molti vedono essenzialmente maschile, per me ha un’anima femminile». Direttore artistico della storica azienda italiana dal settembre 2015, ha progettato arredi, complementi, superfici per Alessi, B&B Italia, Boffi, De Padova, Flos, Glas Italia, Kartell, Molteni, Mutina e molti altri: «Lavoro dove trovo delle affinità elettive e sento di poter apportare il mio contributo», dice. Ha inventato spazi e negozi, ha vinto premi e visto i suoi prodotti esposti al MoMA o al Victoria & Albert Museum.
Patricia Urquiola ama disegnare. E ama parlare: le sue parole scorrono rapide, cambiano rotta, si infrangono in una risata; a volte, per tenere il ritmo dei pensieri, dall’italiano virano allo spagnolo o all’inglese. Ricorda i suoi maestri, Achille Castiglioni e Vico Magistretti, passa da Proust al cinema di Wim Wenders («Lampi sull’acqua mi ha fatto scoprire il tempo che passa»), racconta della sua Galizia: «È una società matriarcale, dove le donne suonano la gaita, una specie di cornamusa. Una terra di frontiera, come quella basca, da cui viene mio padre». Nata a Oviedo 56 anni fa, ha studiato architettura a Madrid, poi si è trasferita a Milano, dove si è laureata nel 1989. Il suo studio, in via degli Eustachi, è essenziale ma accogliente. Lei, che per i sessanta collaboratori è un po’ madre, un po’ sorella maggiore, al piano superiore ha costruito la casa, il rifugio privato dove vive con Alberto Zontone, compagno di affetti e di scrivania, e le due figlie.
Design e architettura sono interpretazioni del mondo: quello che c’è o quello che verrà?
«Le cose cambiano e così il nostro modo di affrontare bisogni quotidiani, come ad esempio sedersi. Si possono immaginare nuovi oggetti, che implicano relazioni diverse: negli Anni Settanta si è decostruito, poi c’è stato un ritorno alla forma, ora la rivoluzione digitale, il multitasking, la connessione continua ci impongono di ripensare gli spazi della casa e dell’ufficio. Una sala riunioni è sostituita da uno spazio libero e configurabile a seconda delle esigenze, una lampada diventa un proiettore, le superfici trasmettono informazioni e sono connesse a sensori. Bisogna entrare nella civiltà dell’informazione anche coi mobili».
Non ha paura che un giorno un’intelligenza artificiale possa prendere il suo posto?
«Forse diventeremo cyborg, metà macchine metà uomini, ma prima dovremo diventare veramente uomini e donne. Chi viene da una cultura umanistica, come me, non può non essere preoccupato, perché il digitale adotta una narrazione completamente diversa: compito della mia generazione è lavorare affinché nel mondo delle macchine resista una parte di umanità. Non vedo contrapposizione col digitale, ma una dialettica produttiva: può esserci architettura anche negli spazi virtuali».
Nel suo studio disegna a mano?
«Dopo molto tempo, in questi giorni ho visto schemi molto interessanti fatti a mano, ma devo un po’ forzare i collaboratori: il 3D non serve solo per i render, per noi è già uno schizzo, il disegno a mano è una riduzione molto bella, quasi poetica, uno strumento velocissimo per semplificare la comunicazione».
Cos’è il design oggi?
«Progetto, scelta, responsabilità. Il design implica attenzione per il mondo, consapevolezza dei comportamenti che cambiano, delle cose che fai tu e che fanno gli altri, ma sempre con un’idea, una visione. So che è una definizione un po’ vaga, però mi consente di far crescere il mio lavoro in direzioni sempre nuove».
Il design ci cambia la vita?
«Non credo. È però uno strumento per ragionare, che richiede grandi capacità di analisi e di sintesi. I designer affrontano problemi in ambiti molto diversi, con un’attitudine non legata solo alla funzionalità o alla logica economica, e di questo ci sarà sempre bisogno».
Ma il prezzo tiene lontane tante persone dal design.
«C’è tanto design intorno a noi, prenda questo vassoio, ad esempio, è di Muji e non è costoso, ma ha una gentilezza rara. E c’è il design democratico di Ikea, che è interessante ma limitativo se preso in senso letterale, perché tante rivoluzioni sono nate in ambiti ristretti, poi si sono estese alle masse: penso a uno come Alessandro Mendini, che con i suoi prodotti ha contribuito a riflessioni che vanno molto al di là del design».
E Cassina?
«Compie nel 2017 novant’anni e ha un archivio di oltre 600 pezzi storici di maestri come Le Corbusier, Mackintosh, Lloyd Wright, Charlotte Perriand, Albini, Zanuso, che regolarmente ripropone, tuttavia questa eredità non ne rallenta la spinta verso il futuro. Io sono coinvolta come art director, designer, ma pure come architetto: ho rivisto la sede di Meda, ripensato i negozi, la grafica e la comunicazione. All’ultimo Salone del Mobile ho curato l’installazione Cassina 9.0, per sottolineare il lato sperimentale dell’azienda, come lo studio di Mario Bellini sullo spazio abitativo dell’auto: la sua Kar-A-Sutra fu una splendida intuizione».
Che poi portò all’idea di monovolume.
«E un’altra rivoluzione è vicina: con le auto senza guidatore bisognerà inventare un nuovo spazio all’interno della vettura, il centro non sarà più il posto di guida, con il volante e i comandi. Ho lavorato con Bmw a una concept car, anni fa, e il rapporto con loro continua ancora».
L’auto del futuro sarà anche più ecologica. E il design del futuro?
«L’attenzione per l’ambiente è parte integrante di tutto quello che facciamo, tanto che non è più un tema a sé. Ecologia vuol dire ad esempio che gli oggetti complessi devono poter essere smontati, ricomposti e riutilizzati: prima del riciclo, prima che diventino vintage. Ma pure che l’azienda faccia un uso consapevole delle energie, del materiale umano, del suo rapporto con il luogo in cui nasce, con le risorse a volte trascurate di artigiani e lavoratori».
C’è design buono e cattivo?
«Non lo so, l’idea di good design mi fa ridere, i parametri per giudicare ciò che è buono e ciò che non lo è cambiano così velocemente. Io so che questa nostra Italia ha creato aziende che hanno portato cose bellissime nel mondo: altri saranno capaci di copiarle, ma siamo noi che dobbiamo intrecciare i fili della memoria e andare ogni giorno un po’ più avanti».