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 2017  settembre 09 Sabato calendario

Di Maio resta senza avversari. Il paradosso delle primarie M5S

AAA cercasi candidato che voglia sfidare Luigi Di Maio, vincitore scontato delle imminenti primarie del M5S per mancanza di avversari. Dieci anni dopo il primo V-Day, nel giorno delle celebrazioni gonfie di amarcord, il M5S si ritrova un leader, Beppe Grillo, autoesiliatosi in vacanza, un manager, Davide Casaleggio, alle prese con le grane informatiche prima del voto online più importante della storia del Movimento, e un candidato premier, Di Maio, rimasto a correre da solo.
A due settimane dalla grande festa nazionale di Rimini che lo consacrerà con la valanga di clic degli iscritti al blog di Grillo, in casa 5 Stelle fanno i conti con un paradosso della democrazia diretta. Finora c’è un unico nome in corsa ed è quello su cui nell’ultimo anno la Casaleggio e lo staff della comunicazione hanno apposto i galloni del vincitore. Nessuno sfidante si è fatto avanti, perché tutti nutrono il ragionevole dubbio di andare incontro a sconfitta certa. Per questo si cerca un modo per uscirne e ed evitare quello che una fonte del M5S definisce «l’effetto farsa». Due restano le possibilità: una gara senza gara o con un avversario messo lì a fare numero contro Di Maio, tanto per salvare le apparenze e consentire a Casaleggio Jr di ribadire quanto detto al Corriere, che «chi verrà scelto verrà scelto per il lavoro svolto in questi anni non per queste due settimane». Una risposta a chi da mesi, dentro e fuori il M5S, gli fa notare che ancora non si conoscono le regole per le votazioni e che i candidati non hanno potuto affrontare nemmeno una mini-campagna di autopromozione per provare a scippare lo scettro a Di Maio e a dimostrare, appunto, il lavoro fatto. E allora, hanno pensato in tanti, da Roberto Fico a Nicola Morra e ad altri che non digeriscono la gestione personalizzata del M5S, «tanto meglio se se lo fanno tra di loro» il voto. Nessuno osa dirlo in pubblico, ma questo è il sentimento diffuso.
Ecco perché ai più nel M5S sono suonate un po’ giustificatorie le parole di Di Maio a Trieste, al decennale del V-Day: «Per noi l’elezione del candidato premier è l’elezione di un portavoce che realizzerà un programma elettorale. Io – ha poi aggiunto – se lo vorranno gli iscritti, ci sarò». Il problema è che c’è solo lui. Fico continua a rimanere silente ma non smentisce il richiamo della sua Napoli, dove si potrebbe giocare il suo secondo e ultimo mandato da grillino (e dove però si vota nel 2021). Alessandro Di Battista dopo aver evocato, senza nomi, la presenza di più di un candidato in corsa per la premiership, non ha aggiunto nulla di più di quanto ha detto alla festa del Fatto: «A tempo debito dirò cosa farò».
Il tempo però scarseggia e dalla Casaleggio non hanno ancora chiarito se ci sarà o meno un ente terzo a certificare il voto. Anche da Grillo nessuna novità su regole e metodo. Troppo impegnati, tutti, a cullarsi tra i ricordi di quel primo V-Day, a Bologna, nel 2007, a postare foto di «dove-eravamo-dieci-anni-fa», a rievocare la strada che sperano li porterà al governo. Ognuno a modo proprio. Perché c’è chi come Fico approfitta dell’anniversario per riassaporare quell’innocenza e rimpiangerla contro «i rischi delle pressioni, dell’attenzione al consenso, della vanità nutrita dalla sovraesposizione», da quelle «debolezze umane che sono le nostre possibili trappole». È la sua personale predica contro un M5S che non gli somiglia più. Eppure, dice invece Grillo, dopo tutte le turbolenze «siamo ancora qua, più forti di prima, e forse a un passo da un altro traguardo storico». Un traguardo che non è scontato a guardare le incrinature interne che rendono meno granitiche anche le previsioni di Di Maio: «Credo che il M5S riuscirà a restare unito e spero che riuscirà ad andare al governo se lo vorranno i cittadini». In quel «credo» c’è tutta la paura che non sarà così. Che l’unità resterà precaria e che i conti si regoleranno dopo il voto.