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 2017  settembre 09 Sabato calendario

Così il Canada guadagna con un sistema di flussi regolato. Ottawa concede permessi in base alle richieste del mercato

«Verifica se puoi fare domanda». È la prima voce sul portale del governo canadese dedicato all’immigrazione. Seguono un modulo da compilare e la possibilità di registrarsi online per fare richiesta di un permesso di soggiorno. Con questo sistema il Canada tra il 2011 e il 2015 ha fatto entrare una media di 260 mila persone l’anno, selezionando chi conosce meglio le due lingue ufficiali del Paese, inglese e francese, e chi ha maggiori esperienze e competenze. Nel 2016 Ottawa ha superato i 300 mila ingressi – che era stato fissato come obiettivo – e anche per quest’anno il governo vuole centrare lo stesso risultato. Sul sito c’è un «jobs bank», una banca dati che raccoglie migliaia di offerte di lavoro. Industria, costruzioni, agricoltura. Ma le competenze non bastano, i canadesi non regalano niente. L’accesso al Paese è consentito non solo a chi dimostra di essere in grado di trovare lavoro, ma anche di avere a disposizione una somma sufficiente per i primi tempi: 8 mila euro per un singolo, intorno a 12-15 mila se si sbarca dall’aereo con tutta la famiglia.
In Italia non c’è un sistema analogo di accesso. Di fatto non c’è alcun sistema di accesso. L’unico strumento disponibile è il decreto flussi, che negli ultimi anni è stato via via ridotto nei numeri e che oggi consente l’ingresso praticamente solo agli stagionali. L’unica possibilità che resta a chi vuole venire in Italia a lavorare è tentare le vie del mare e dell’illegalità. Che, oltre a rischi e sofferenze, costa anche molto denaro. La traversata in barcone vale da 700 fino a 1500 euro a testa. Ma il viaggio inizia molto prima. Chi viene dal Corno d’Africa, per esempio, viaggia per mesi a bordo di camion e fuoristrada attraverso Sudan e Ciad e secondo quanto riferì tempo fa l’ex comandante generale della guardia di finanza Saverio Capolupo in un’audizione di fronte al Comitato Schengen, «a ciascuno vengono richieste cifre variabili tra i 1500 e i 6000 euro». Insomma, per arrivare in Italia, i migranti tirano fuori in molti casi tra i 2 mila e gli 8 mila euro a testa. A queste spese si aggiungono quelle degli italiani. Nel Def di quest’anno figurano 4,2 miliardi di euro, pari allo 0,25% del Pil: il 19% per il soccorso in mare, il 68% per l’accoglienza e il 13% per sanità e istruzione. A cui si sommano i 99 milioni di euro (solo per il 2017, in tutto sono 225 milioni spalmati su più anni) che l’Italia si è impegnata a dare alla Turchia nell’ambito dell’accordo con l’Ue. E gli aiuti che Roma sta promettendo a molti Paesi africani.
Quando un migrante arriva nel nostro Paese, poi, l’unica possibilità che ha per restare è compilare la domanda di asilo. Per i primi due mesi non può lavorare e quindi è totalmente a carico dello Stato. Solo una volta trascorsi 60 giorni, che vanno quindi completamente persi, può essere impiegato. A quel punto molti trovano un lavoro. Aspettano mediamente un anno e mezzo una risposta, e intanto lavorano. Ma se poi la richiesta di asilo viene respinta, tornano clandestini. A Torino, a marzo, come ha documentato La Stampa, un centinaio di imprese sono state costrette a scrivere al prefetto Renato Saccone per chiedere che non fossero espulse le persone che avevano assunto. Grazie al suo interessamento presso le commissioni competenti, i migranti hanno ottenuto la protezione umanitaria. Non un vero e proprio permesso di lavoro. Un escamotage perché avessero un documento per restare. «Ci troviamo in un corto circuito normativo», spiega Tatiana Esposito, responsabile della direzione generale immigrazione del ministero del Lavoro.
Eppure, il Centro studi di Confindustria (Csc) stima che senza l’apporto di lavoro straniero, il Pil italiano nel 2015 sarebbe stato di 124 miliardi più basso, l’8,7% in meno. L’associazione degli industriali da tempo auspica un modello di immigrazione organizzato ed è scesa in campo con uno studio ad hoc nel quale afferma che «due italiani su tre ritengono che l’immigrazione sia un costo per il nostro Paese, però tutti gli studi indicano che l’impatto dell’immigrazione sulla finanza pubblica italiana è positivo». E promuove l’idea di un canale di ingresso legale: «Un sistema ordinato di selezione – spiega il direttore del Csc, Luca Paolazzi – sarebbe molto più sensato di ciò che abbiamo ora. Adesso è totalmente casuale». A voler fare «un calcolo sul retro di una busta», come lo definisce Paolazzi, se cinque milioni di stranieri generano 124 miliardi, i 181 mila migranti sbarcati nel 2016 avrebbero potuto movimentare l’economia di ulteriori 4,5 miliardi di euro entrando legalmente.