la Repubblica, 11 settembre 2017
Jabbar e il maestro Wooden. Cosa s’impara da un chiodo
Lew Alcindor aveva 18 anni e l’aura del campione predestinato. Aveva attraversato tutti gli Stati Uniti, dalla sua New York a Los Angeles, non tanto per il livello eccellente dell’università, Ucla, quanto per essere allenato da un coach di pallacanestro già allora (1965) importante e più tardi leggendario come John Wooden. Quel primo giorno, assieme a compagni che formavano “la più grande squadra di matricole della storia del basket”, era impaziente di bere alla fonte del sapere sportivo e pensò di aver sbagliato indirizzo. Il guru così esordì: «Oggi impareremo come metterci le scarpe da ginnastica e le calze in modo corretto. Parleremo dei concetti di calze tese e scarpe comode». Se voleva stupire, aveva fatto centro con ragazzi che credevano di essere in diritto di saltare l’alfabeto e in grado di scrivere romanzi. Siccome era anche docente di letteratura, Wooden continuò declamando: Per colpa di un chiodo, si perse lo zoccolo / per colpa di uno zoccolo si perse il cavallo / per colpa d un cavallo, si perse il cavaliere / per colpa di un cavaliere, si perse la battaglia / per colpa di una battaglia si perse il regno / e tutto per colpa di un chiodo.
E concluse: «Volete imparare qualcosa sulla pallacanestro? Leggete Benjamin Franklin». La sua ossessione erano le vesciche ai piedi tanto che lo si potrebbe parafrasare così: per colpa di una vescica si perse un giocatore, per colpa di un giocatore si perse uno schema, per colpa di uno schema si perse una palla, per colpa di una palla si perse una partita, per colpa di una partita si perse un campionato, e tutto per colpa di una vescica.
Andando a ritroso Lew Alcindor, che poi si fece musulmano diventando Kareem Abdul-Jabbar, avrebbe scorto in quell’esordio tutti gli ingredienti della grandezza dell’uomo: il primato dello studente sull’atleta, il rigore, la cura del dettaglio. Ancora non sapeva, quel giorno sulla panchina di Ucla, che stava nascendo il rapporto più profondo e importante della sua vita, al netto e forse nemmeno di quelli familiari. Un rapporto impronosticabile: lui giovane nero, attratto dal vento della contestazione e dalle battaglie in difesa dei diritti calpestati della sua gente; il coach un signore bianco di 55 anni, piuttosto tradizionalista e incarnazione dei valori cristiani del Midwest americano.
Due fotografie illustrano l’amicizia durata, a dispetto delle differenze, fino alla morte dell’allenatore-maestro nel 2010 (dopo pochi mesi avrebbe compiuto 100 anni). Stanno sulla copertina e sul retro del volume scritto da Jabbar “Coach Wooden and me” (Add editore, 254 pagine, 20 euro, in libreria in questi giorni). In entrambe Kareem svetta dall’alto dei suoi 218 centimetri, 40 in più dell’altro. Nella prima, del 1966, è un imberbe con il capo chino che ascolta i consigli su come posizionarsi in campo. Nella seconda, del 2007, è un uomo che cammina a testa alta, fiero di tenere per mano e aiutare nella deambulazione colui che a lungo gli indicò la strada. Insieme hanno vinto tre campionati universitari (Ncaa). Wooden ne totalizzerà dieci, entrerà nella Hall of Fame come allenatore dopo aver avuto il riconoscimento anche come giocatore. Jabbar si fregerà di sei anelli Nba, uno con Milwaukee, cinque coi Los Angeles Lakers. Ma, ciò che più conta, l’uno ci sarà per l’altro, non solo nei giorni facili dei trionfi, pure nei giorni tristi dei lutti e delle sconfitte. C’era, tra loro, una corrente sotterranea, che li teneva uniti anche quando la politica e le scelte conseguenti potevano segnare, se non una rottura, almeno un distacco. Perché tutto era superato da un dote che si riconoscevano reciprocamente: l’integrità morale, la lealtà che si deve prima a se stessi. Era questo che impediva di giudicare, semmai solo di prendere atto, in una relazione fatta di tante parole e di tanti silenzi. Solo a posteriori Kareem scoprirà atti concreti con cui John, senza fare tanta propaganda, si era speso per le conquiste civili dei neri d’America. Come avesse sofferto quanto lui quando lo chiamavano spregiativamente “nigger” e avesse cercato di porre rimedio all’ignoranza di chi credeva nella superiorità di una razza.
Finita la carriera sul parquet, Jabbar è diventato scrittore di un certo rilievo. In questo libro lo sport è marginale. Piuttosto emerge il racconto dell’amicizia con l’uomo che vinse tanto proprio perché il successo non era un’ossessione ma la risultante logica se si fossero fatte le cose perbene.
E che, col suo esempio non con l’imposizione, influì sulle decisioni che avrebbe preso nella vita. Sempre avendo come stella cometa la semplicità racchiusa in un colloquio. Wooden: «Mi piacciono i film western perché i buoni sono buoni e i cattivi cattivi. I buoni sanno qual è la cosa giusta da fare per sconfiggere i cattivi. E lo fanno sempre». Jabbar (lasciando trapelare la sua collera politica): «Non è realistico, il mondo non funziona così». Wooden: «No. Ma potrebbe. Potrebbe».