la Repubblica, 10 settembre 2017
Amy Winehouse, la vita parallela
Due scene dello stesso melodramma. Cambiano tempi, luoghi, costumi, non la trama. È come uno di quei folli allestimenti che ogni tanto i teatri azzardano per riportare i giovani all’opera, Violetta in minigonna o Alfredo col chiodo in sella alla motocicletta.
Sono storie che comunque le giri fanno male, sublimate dalla penna di Dumas figlio o ingenuamente trattate da librettisti frustrati e ansiosi di compiacere, come Francesco Maria Piave, il Verdi di turno. La signora delle camelie o La traviata?
Quale Maria Callas e quale Amy Winehouse?
Ma è, appunto, la stessa storia – una finita nel lussuoso appartamento parigino di avenue Georges Mandel, l’altra in un pianoterra di Camden Square, a Londra, più disordinato di un bivacco per studenti. Un’icona della lirica, una dea del pop. Due profili che visti in penombra si assomigliano in modo impressionante: il viso fiero, le labbra carnose, il naso pronunciato e volitivo, gli occhi bistrati come una Medea o una Cleopatra, la torre di capelli corvini.
Le accomunano la bulimia e l’ossessione per il corpo, una madre ( assente) che a entrambe rimprovera i chili di troppo, l’amore esagerato per il padre che finisce con l’inquinare qualsiasi relazione, non solo sentimentale (Maria Callas condannata a una perpetua ricerca di un genitore amante, in Meneghini, Onassis e persino in Pasolini; Amy Winehouse incapace di prendere una decisione senza l’approvazione di papà Mitch, troppo presente e mai disinteressato).
Ma di più le accomunano grandezza e fragilità. Uniche, ognuna nel proprio genere. Maria, la prima a cantare recitando, soprano e attrice, inimitabile ( perché irraggiungibile) nell’uno e nell’altro ruolo, una combinazione ( e una lezione) che ancora oggi, dopo oltre mezzo secolo, il mondo della lirica stenta a digerire ( chi altra poteva scegliere Pasolini per la sua Medea?). Amy, la prima a raccontare in canzoni, per filo e per segno, un quotidiano fatto di poche certezze, gelosie, rapporti interrotti e corrotti, sesso poco edificante, depressione maniacale, molti bicchieri di troppo, droga assassina e inaccettabile riabilitazione.
Berlino, agosto 2007: la incontro al Kalkscheune ( anche il punk ha le sue Carnegie Hall), ha ventitré anni, il corpo già sgangherato dall’eroina ( ma sul palco ancora di un’intensità che lascia storditi). Il manager la insegue nel camerino gridandole le ( molte) date dei prossimi concerti. Lei lo zittisce con un’occhiataccia. La stessa con cui la Callas fulminava Meneghini – un pastrocchio di marito, impresario e papà part time – quando le proponeva l’ennesima recita “impossibile da rifiutare”, al Met o alla Scala, e lei di recite non voleva più saperne perché all’orizzonte c’era già Aristotele, un malamore che le succhiava le forze.
Maria si perdeva e si umiliava dietro Onassis, Amy dietro Blake Fielder- Civil, un armatore e un profittatore di bassa lega – qual è la differenza quando sono capaci di far male allo stesso modo? Per entrambe erano una dipendenza peggiore dell’eroina. Non c’erano quegli uomini quando la Callas crollò sul palco dell’Opéra di Parigi né quando Amy affrontò ubriaca fradicia il pubblico di Belgrado. Non c’erano nel momento in cui la solitudine le divorava.
La loro assenza le ha uccise, ma l’arte – scriverebbe un autore mélo – le ha rese immortali.