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 2017  settembre 10 Domenica calendario

Maria Callas, vive d’arte, visse d’amor

A ida muore sepolta in prigione, “Morir! sì pura e bella!”, Violetta si spegne tossicchiando, “Gran Dio! Morir sì giovane”. Gioconda si trafigge il cuore con una spada, mentendo, “Vo’ farmi più gaia”, Leonora viene accoltellata dal fratello, “Lieta or poss’io precederti”: Cio-cio-san si fa harakiri, Tosca si butta da Castel Sant’Angelo, Gilda si fa uccidere, Norma finisce sul rogo. Angeliche o crudeli, pure o peccatrici, le eroine del melodramma quasi sempre muoiono, naturalmente per amore: è un concetto, o forse un inconscio desiderio maschile ( non sempre relegato al passato e all’opera o al romanzo); alla fine l’eroina per restare indimenticabile è meglio che si faccia da parte (Marilyn Monroe, la principessa Diana), affinché la si possa amare e piangere per sempre. Anche Maria Callas, che aveva amato ed era morta decine e decine di volte sui grandi palcoscenici del mondo nei ruoli dei suoi meravigliosi personaggi, finì per trasformare la sua vita in un melodramma: “Vissi d’arte, vissi d’amore…”; non si è certi che non abbia mai fatto “male ad anima viva”.
Il tempo luminoso della sua arte fu quello della Scala, il maggior teatro della grande musica e delle tempestose eroine della lirica; prima che l’amore la distruggesse, gli uomini la umiliassero, i farmaci l’annebbiassero, la voce troppo presto si incrinasse; prima che insicurezza e presunzione, rabbia e paura le allontanassero gli affetti e gli amici, che si spegnesse il delirio mondiale attorno al suo genio, di fanatici ammiratori e di altrettanto fanatici detrattori (gli scontri tra le due fazioni finivano spesso all’ospedale). Massima diva anche nella sua melodrammatica vita privata, attraversata da amori sbagliati, Maria Callas moriva il 16 settembre 1977, sola: due mesi dopo avrebbe compiuto cinquantaquattro anni. La cantante e amica Montserrat Caballé parlò di suicidio, Placido Domingo disse che a ucciderla era stata la malinconia, si sospettò addirittura un possibile delitto; i medici diagnosticarono un attacco cardiaco, non fu richiesta un’autopsia. Il 20 settembre, dopo il funerale nella chiesa greco ortodossa di Parigi, il corpo che era stato quello di Isolde, di Anna Bolena, di Fedora, di Armida, veniva cremato, nel fuoco come Medea. La restituisce alla meraviglia della sua arte e ai giorni dei suoi trionfi il Museo della Scala diretto da Donatella Brunazzi, con una bellissima mostra curata da Margherita Palli, da un’idea del sovrintendente Alexander Pereira. Nella ricchezza delle registrazioni, dei video, delle fotografie, dei manifesti, dei documenti, “Maria Callas in scena. Gli anni della Scala” evoca spettacoli passati alla storia della lirica ed espone una serie di costumi splendidi, religiosamente conservati nell’immenso archivio del teatro, testimonianza luminosa, tattile, del corpo della Callas, della sua invenzione scenica, del suo perfezionismo esasperato, della sua implacabile guerra contro sé stessa e il mondo.
Il melodramma, la sua consacrazione dell’amore e della necessaria morte, non ammette un’eroina grassa, anche se quando contava solo la voce lo furono tante grandi cantanti d’opera, certe valchirie che nessun Siegmund, pur robusto, riusciva a stringere tra le braccia. Callas, nella sua immensa ambizione vendicativa, non si accontentava di essere un’acclamata cantante, voleva essere una diva amata e temuta; voleva essere bella, la più bella non solo sulla scena. Ecco quindi nella mostra la seta dorata che si espande sul palcoscenico, su disegno di Nicola Benois, che nel 1952 avvolge una Lady Macbeth (diretta da de Sabata) di novanta chili, ed è già meno ingombrante di quando, due anni prima, a centocinque chili, debutta alla Scala, goffa e spaventata, in una Aida (diretta da Capuana) come sostituta di Renata Tebaldi, star del Piermarini, adorata dai milanesi e protetta da Toscanini, che è malata. Nella stagione 1954-55, a Luchino Visconti ( direttore d’orchestra Antonino Votto) affidano l’inaugurazione della stagione con La Vestale di Spontini, e la protagonista non solo è una grande interprete, ma anche una giovane nuova donna che si è fatta slanciata, agile, che dentro i candidi veli del personaggio, disegnati da Zuffi, vuole solo capire come usare quel suo nuovo corpo leggero che ancora le è sconosciuto; la definitiva Maria, sempre più immemore del tempo in cui era la maltrattata Kalogeropoulos definita da Rudolf Bing, sovrintendente del Metropolitan di New York, “di mostruosa grossezza e di goffaggine ridicola”, sempre meno signora Meneghini e sempre più soltanto divina Callas, è già al centro di un delirio mondiale quando Leonard Bernstein e Visconti la dirigono ne La sonnambula, e Piero Tosi si trova a vestire una Amina eterea, una fanciulla con il vitino di vespa, cinquantacinque centimetri, come quello della celebre ballerina di primo Ottocento Maria Taglioni. Lo stesso anno, per La traviata, uno spettacolo entrato nel mito, diretta da Carlo Maria Giulini, regia di Visconti, scene e costumi ottocenteschi (misteriosamente scomparsi) tra cui una storica toilette rosso fiamma riprodotta per la mostra dall’originale di Lila De Nobili, che disegnò per Violetta anche il celebre collier con orecchini di cristalli Swarovski color rubino di rara bellezza, opera del maestro Ennio Marangoni, imprestati al museo da un collezionista privato; altra prova della maniacalità della Callas, che ne seguiva quotidianamente la lavorazione, provandoli e riprovandoli nella sua casa milanese di via Buonarroti.
La ragazzona americana di origine greca, dalle gambe gonfie e lo sguardo intimidito e truce, quando arriva in Italia, chiamata dall’Arena di Verona per una Gioconda diretta da Tullio Serafin nell’agosto del 1947, ha ventiquattro anni e sa già di essere grande: ad Atene, dove è andata a vivere con madre e sorella dopo la separazione dei genitori, ha studiato accanitamente, ha già cantato in molte opere, anche a New York, si è fatta con molta disinvoltura, in Grecia, qualche amante tra gli occupanti italiani e simpatizzanti nazisti, e anche, così racconta la biografia scritta da David Bret, il basso Nicola Rossi Lemeni. La sua voce, ma anche il suo giovane corpo florido, fa subito innamorare Giovanni Battista Meneghini, un industrialotto locale pure melomane; è grassoccio, più piccolo di lei, ha ventotto anni in più, ma le regala enormi pellicce che la nascondono, bei gioielli che danno luce ai suoi demoniaci occhi neri. Anche lei si innamora, gli scrive “Vorrei morire tra le tue braccia”; è il primo segnale che, a furia di interpretare in scena l’eroina innamorata e morente, il melodramma è entrato anche nella sua vita.
Se Elvira De Hidalgo è stata la maestra della voce quella voce, unica per estensione e intensità espressiva -, Luchino Visconti le ha insegnato i gesti della seduzione, i movimenti da grande attrice di Sarah Bernhardt e di Eleonora Duse davanti al cui ritratto, opera di Kaulbach conservato nel museo, lei si è fermata tante volte, per imitarne la grazia.
Dai palcoscenici del mondo, diretta dai più grandi, Gavazzeni e de Sabata, Bernstein e Karajan, l’opera avvolge anche la sua vita, quella di una superba star che ostenta il lusso di gran classe prima della milanese Biki, poi del francese Saint Laurent: alta moda, cappello, guanti, tacchi alti, occhialoni neri ( lei è molto miope).
Il suo declino inizia, come il suo successo, alla Scala, una sera di maggio 1962. La funesta Medea è appena entrata in scena, incerta, malata, e subito la sua voce, logorata, si spezza: il pubblico fanatico che di solito l’applaude forsennatamente o l’assorda coi fischietti tace, come per la premonizione di un lutto, di una fine. Ci sarà una replica, e sarà l’ultima sua apparizione alla Scala. La diva, la tigre Callas ha solo trentanove anni e in quell’anno la sua vita è disperata: il suo amore, Onassis, ha divorziato dalla moglie ma non ha nessuna intenzione di sposarla, il suo nemico, Meneghini, nella separazione le addebita la colpa, sua madre che non vede da tredici anni continua a diffamarla. La sua salute è sempre più fragile, le sue scenate, fughe, capricci, villanie, rotture di contratto hanno esasperato cantanti e sovrintendenti che non la vogliono più. Il resto è cronaca mondana cattiva, è assedio di paparazzi, è illusione, delusione, sconfitta. Lei davvero si innamora, e tutti alla fine la tradiscono, le fanno del male, la rifiutano: il Meneghini vendicativo, l’orribile armatore greco Onassis, gran seduttore miliardario, l’unico uomo che, l’ha detto lei più volte, l’ha fatta sentire donna, che sposa Jacqueline Kennedy ( per poi tornare, ogni tanto da lei, con un mazzo di fiori o un gioiellino); si invaghisce di Pier Paolo Pasolini che l’ha voluta come Medea nel suo film, anche lui l’ama come può, platonicamente.
L’ultimo amore desolato è per il tenore Giuseppe Di Stefano ormai sfiatato: lei riesce a imporlo in alcuni concerti, ma lui alla fine sceglie per queste tristi apparizioni un’altra soprano, un ennesimo abbandono. Oggi il melodramma della sua disfatta privata non conta più da tempo. Resta la sua grandezza di diva del melodramma lirico, negli anni in cui il mondo adorava l’opera, tuttora unica, tuttora insuperata.