la Repubblica, 9 settembre 2017
Nella stanza del tesoro dei Maharaja
VENEZIA L’imperatore Shah Jahan, barbetta attorno al viso e baffi neri, come tutti i regnanti dell’India era sempre coperto di gioielli, per esibire il suo potere ma anche forse, per un minimo di frivolezza, confermata dai leggiadri tessuti fioriti e ricamati della sua gonna a campana sopra i pantaloni stretti e le babbucce di seta con la punta all’insù. In una gouache del 1629, inchiostro e oro su carta, attribuita al pittore di corte Hashim, sul torso nudo del monarca splendono file di perle, come sul turbante, sulla cintura e sulle braccia. La pietra più preziosa però è uno smeraldo gigante che pende da una delle collane. E di questi smeraldi c’è un ampio settore nella splendida e splendente mostra Tesori dei Moghul e dei Maharaja che si inaugura oggi al Palazzo Ducale di Venezia (sino al 3 gennaio 2018), nell’immenso salone dello Scrutinio, decorato da grandi affreschi cinquecenteschi.
Gli incantevoli, fiabeschi oggetti provengono da una collezione privata, quella dello sceicco Al Thani, cugino dell’Emiro regnante del Qatar, che, dopo aver visitato nel 2009 una grande mostra sui Maharaja al Victoria and Albert Museum di Londra, si innamorò di quello sfarzo e in soli otto anni, i mezzi non gli mancano, ha riempito un immenso caveau di antiche meraviglie indiane. La mostra è curata da Amin Jaffer conservatore capo della collezione Al Thani e da Gian Carlo Calza, studioso di arte asiatica, con la direzione scientifica di Gabriella Belli, direttrice della Fondazione Musei Civici di Venezia. In piccole teche foderate di nero, emanano misteri gli smeraldi incisi con iscrizioni religiose o titoli principeschi, oppure a forma di fiore, come il più raro e prezioso, di 211,2 carati. Ma credo sconvolga le signore, pure le più ingioiellate con i loro caveau in banca, soprattutto la collana a doppio filo di grossi smeraldi rotondi alternati a perle naturali, che il desiderio non può raggiungere oltre il cristallo ultrainfrangibile: in un acquarello su avorio del 1850 la collana appare, assieme ad altre uguali, sul petto di Bahadur Shah II, ultimo imperatore Moghul, stirpe musulmana discendente da Gengis Khan e Tamerlano, con un turbante carico di smeraldi, fiocchi di perle, l’immancabile aigrette, barba e baffi bianchi, sguardo miope, mentre fuma il narghilè. Sia musulmani che indù erano appassionati di smeraldi, scoperti nelle miniere colombiane e portati nel subcontinente indiano nel tardo Cinquecento da mercanti europei: per gli indù lo smeraldo era un talismano che riequilibrava l’oroscopo di chi lo indossava, per i musulmani rappresentava il bene e la purezza e accecava serpenti e demoni.
Le altre preziosità l’India le aveva (le ha?) in casa: le miniere di diamanti di Golconda, di spinelli, più preziosi dei rubini, del Badakhshan, di zaffiri inimitabili del Kashmir: altri zaffiri e rubini venivano da Ceylon e dalla Birmania (oggi Sri Lanka e Myanmar), le perle dal Golfo Persico. Che tempestavano tutte insieme nei loro lucenti colori anche l’elsa di giada a testa di animale di delicati pugnali, di cui in mostra c’è una vasta collezione mirabolante: appaiono negli acquerelli e gouache secenteschi al fianco dei vari elegantoni, anche con stupendi stivali rossi. C’è un servizio di posate d’epoca incerta, tra il Cinque e il Seicento, che farebbe smaniare il defunto Robert de Balkany che collezionava milioni di oggetti di princisbecco, venduti ad aste recenti per cifre pazzesche: quattro coltelli, quattro forchette, quattro cucchiai di cristallo di rocca con colletti d’oro tempestati di rubini e zaffiri; ma anche il settecentesco servizio per durbar, che erano le riunioni di governo, una serie di contenitori d’argento con cui venivano offerte prelibatezze, profumi e narghilè. Appartenuto a Robert Clive, cui, per la sua cattiveria, recentemente è stato paragonato Trump da uno studioso americano, lavorava per la famosa Compagnia delle Indie dedita al commercio ma anche provvista di un esercito sempre in guerra contro i francesi per ragioni mercantili, e contro i regnanti indiani per occuparne militarmente i territori. Conquistato il Bengala nel 1757, se ne impossessò, accumulando ricchezze immense, mentre un terzo della popolazione moriva di fame: al Parlamento inglese riferì che lui doveva rendere conto agli azionisti della Compagnia, a cui degli indiani non importava nulla, e che comunque i loro Maharaja erano “lussuriosi, effeminati, tiranni, traditori, venali, crudeli”. Un pezzo rarissimo che come tanti, ricorda la prepotenza degli inglesi, è uno degli otto terminali di un trono in oro commissionato da Tipu Sultan, sovrano di Mysore: rappresenta la testa di una tigre con diamanti, rubini, smeraldi, lacca, su un piedistallo di marmo nero. Ultimato nella sua sovraccarica opulenza nel 1793, sei anni dopo divenne un bottino di guerra della Compagnia, che lo smembrò disperdendone i pezzi.
Erano gli uomini, i potenti, i signori, i principi e gli imperatori a indossare i gioielli e infatti le illustrazioni d’epoca mostrano sempre riunioni di uomini carichi di collane e bracciali e fermagli da turbante, talvolta languidamente abbracciati. Mai una donna con loro, se non ben lontano dal trono a forma di letto, decine di danzatrici e musicanti, il capo coperto, oppure sole in due e qualche ancella, col velo, a giocare a scacchi. Ce ne sono in mostra, del primo Ottocento, d’oro, diamanti, rubini e smeraldi, come ogni oggetto esposto, dal portapenne allo scacciamosche, dalle ciotole alle statuine di pappagallo, simbolo di regalità.
Gli inglesi facevano affari, guerre e accordi e intanto si sovrapponevano imperi destinati a soccombere, dai Moghul ai Maratha ai Sikh, fino a quando a metà Ottocento l’India divenne parte dell’Impero inglese, sino al 1947 quando ottenne l’indipendenza. Perduti potere ma anche fastidi, e pur sempre ricchissimi ed esibizionisti, i nobili indiani si erano innamorati di tutto ciò che veniva dall’Europa, dai mobili al gusto architettonico e, più tardi, dalle automobili all’abbigliamento: e naturalmente della fattura dei gioielli. La parte finale della mostra è dedicata a questi tesori finalmente indossati da signore: l’aigrette a forma di coda di pavone di platino smalto e diamanti del francese Mellerio per la Maharani di Kapurthala ritratta nel 1907, il braccialetto di platino smeraldi e diamanti per la maharani Sita Devi di Baroda, fotografata da Cartier-Bresson nel 1946, e poi una ressa di spille orecchini, collane opera soprattutto di Cartier. Ma anche gli uomini non rinunciarono subito ad esporre i loro antichi tesori, facendosi fotografare come il Maharaja di Patiala nel 1911 da Vandick, con un collana di tredici fili di perle e uno di diamanti enormi. Nella collezione Al Tha- ni, ma non in questa mostra, c’è pure un curioso ritratto del probabilmente frivolo (si fece ritrarre anche in frac) Maharaja Yeshwant Rao Holkar II di Indore, dipinto da Bernard Boutet de Monvel nel 1934, vestito di bianco, accovacciato su un divano bianco, turbante rosso, al collo doppio filo di perle con pendenti di diamanti e un solo anello sulla mano destra, un eccezionale rubino circondato da diamanti e platino, in mostra. Il bel catalogo Skira, pesantissimo, contiene le immagini non incluse nella mostra, 391 le pagine, 51euro in loco e 60 in libreria.