la Repubblica, 9 settembre 2017
Le lettere di Corrado Augias: i cani e il testamento di D’Annunzio
Caro Augias, esistono tante forme di amore ma se ne esiste uno incondizionato è verso i nostri animali domestici. Chi non ha un cane o un gatto non può capire. Ho una coppia di Jack Russell Terrier: Margot e Lupin. Piccoli, agili, intelligenti, vivacissimi. La loro vita è iniziata e finirà con me. Anche se mi allontano pochi minuti, quando mi rivedono mi salutano come se fossi stato via mesi. Spesso mi portano i loro giochi non perché vogliano giocare con me: il gesto nasconde un atto d’amore. Quando mi guardano negli occhi è come se volessero darmi un abbraccio. Dormono con me, gli animali si sentono vulnerabili quando dormono. Che i miei cagnolini mettano il loro destino nelle mie mani è un segno importante di fiducia. È come se mi dicessero: «Sappiamo che ci ami… e ti amiamo anche noi». Mentre passeggiavo sul lungomare di Ostia, ad un amico che mi ha chiesto: “Ma che bei cani, di che razza sono?”, ho risposto: «Amore puro». Mi viene in mente la struggente “Ode al cane” di Pablo Neruda che così chiude: «È l’antica amicizia, la gioia di essere cane e di essere uomo, tramutata in un solo animale che cammina muovendo sei zampe ed una coda intrisa di rugiada».
Mario Pulimanti – Lido di Ostia – Roma
Il racconto più famoso sul rapporto tra un uomo e un cane è probabilmente “Cane e padrone” di Thomas Mann. Ciò che il signor Pulimanti racchiude in poche righe (ho dovuto purtroppo accorciare la lettera), lo scrittore tedesco sviluppa in parecchie pagine a capo delle quali arriva a stabilire con il suo bastardo “una comunione di pari dignità”. Sempre sul tema c’è una poesia poco nota di D’Annunzio, forse la sua ultima, scritta nel 1935, tre anni prima della morte, fortunosamente scoperta nel 1979 dall’allora giovane critico Pietro Gibellini, in un foglietto a matita dentro un libro francese di viaggi. Per chi conosce di D’Annunzio l’estenuato estetismo, gli eccessi e a volte la vanagloria, questo breve poema “Ai miei cani” può essere una sorpresa. Comincia così: «Qui giacciono i miei cani / gli inutili miei cani, / stupidi ed impudichi, / novi sempre et antichi, / fedeli et infedeli / all’Ozio lor signore, / non a me uom da nulla». Ecco una definizione, “Uom da nulla”, che non ci si aspetterebbe da un uomo dallo smisurato super-ego come lui qui in un rovesciamento totale. Così si vedeva il poeta nel 1935 quando ha superato i settant’anni, è afflitto dai postumi di malattie mal curate e da numerosi acciacchi. Ora arrivano i versi più impressionanti. D’Annunzio “vede” i suoi cani-fantasma nel buio della tomba mentre: «Rosicchiano sotterra / nel buio senza fine / rodon gli ossi i lor ossi, / non cessano di rodere i lor ossi / vuotati di medulla / et io potrei farne / la fistola di Pan / come di sette canne / i’ potrei senza cera e senza lino / farne il flauto di Pan / se Pan è il tutto e / se la morte è il tutto.
Finale: «Ogni uomo nella culla / succia e sbava il suo dito / ogni uomo seppellito / è il cane del suo nulla». L’uomo vissuto di entusiasmi di ogni tipo, letterari, estetici, erotici, militari, politici, chiude nel buio di una depressione panica. C’è chi considera questa poesia, intensa nella sua imperfezione, il suo testamento letterario e umano.