la Repubblica, 9 settembre 2017
Fuga dal dollaro. Trump incerto allarma i mercati ma aiuta i turisti
MILANO Il sogno di Donald Trump di rifar grande l’America si arena – a otto mesi dall’insediamento alla Casa Bianca – su un dollaro diventato all’improvviso piccolo-piccolo. Il timido rialzo della valuta Usa seguito alla vittoria elettorale dello scorso novembre è stato poco più di un fuoco di paglia. Il biglietto verde ha iniziato il 2017 con un’ultima prova muscolare, toccando il 3 gennaio i massimi sull’euro a quota 1,04. Ma da allora – come fosse afflitto da un male oscuro – è iniziata la grande fuga. I numeri parlano da soli: alla chiusura delle contrattazioni di ieri, un euro valeva 1,202 dollari, il 14% in più della quotazione di inizio anno e il massimo da inizio 2015.
La débacle non è un caso isolato al derby valutario transatlantico. La divisa Usa è crollata rispetto a quasi tutte le monete mondiali: ha perso il 18% sullo Zloty polacco, l’8% sullo yen, il 7% sullo yuan, malgrado le grandi manovre della banca centrale di Pechino per provare a deprezzare la sua moneta. È scivolata del 6% persino sulla sterlina, azzoppata dalla Brexit. Una Caporetto culminata ieri con lo “schiaffo” del presidente venezuelano Nicolas Maduro che – visti i capricci del dollaro e malgrado tutte le gatte da pelare che ha a casa propria – ha deciso di agganciare il bolivar alla valuta cinese divorziando da quella americana.
La partenza falsa del mandato di Trump è il primo dei motivi che hanno mandato a picco il biglietto verde. Le speranze di una luna di miele con il paese destinata davvero a far decollare il Pil sono in effetti andate in fumo da un po’.
L’economia americana, intendiamoci, tira ancora: il prodotto interno lordo dovrebbe crescere quest’anno del 2,2% circa, la disoccupazione è al 4,4%. Ma i mercati – e forse anche la Fed – si aspettavano di più: fino a pochi mesi fa gli analisti davano quasi per certo che la banca centrale Usa – approfittando di una ripresa robusta – alzasse i tassi d’interesse (attirando così capitali verso il dollaro). Oggi non ci spera più quasi nessuno anche perché l’inflazione rimane bassa, l’1,7% a luglio. Persino i vertici della Fed (ultimo il presidente della sede di New York William Dudley) hanno smesso di preannunciare il giro di vite sui tassi negli interventi pubblici, come facevano fino a qualche settimane fa.
Trump, di suo, ci ha messo il caratteraccio che l’ha portato a scontrarsi con mezzo Congresso, repubblicani compresi: queste incomprensioni hanno reso più accidentata la strada per l’ accordo sulla riforma fiscale e sull’innalzamento del tetto al debito pubblico Usa, mettendo altra pressione sulla valuta a stelle e strisce.
I guai però non arrivano mai da soli. E a complicare la vita del dollaro – e della Casa Bianca – sono arrivati una serie di imprevisti esogeni di ogni genere. Sul fronte geopolitico, l’incubo si chiama Kim Jong-Un: i missili della Corea della Nord (un altro potrebbe arrivare domenica prossima, in occasione della festa nazionale di Pyongyang) hanno avuto finora il risultato di silurare proprio il dollaro. A rendere tutto più difficile è arrivata poi la drammatica stagione degli uragani: la furia di Harvey prima e di Irma ora rischia di frenare la crescita Usa. E per il biglietto verde sarebbe un altro colpo basso.
Il combinato disposto di tutti questi fattori ha una conseguenza chiara: i grandi capitali si stanno spostando in massa verso l’euro, complice una crescita del Vecchio continente più robusta delle attese. Il governatore della Bce Mario Draghi, a dire il vero, si è detto allarmato per l’eccessivo rafforzamento della divisa Ue. Di fatto però – e le antenne sensibili dei mercati hanno preso nota – non ha messo in campo nessuna misura per frenarne la corsa. E l’ipotesi che possa prorogare (causa inflazione bassa) il piano di riacquisto titoli ha dato a tutti un altro buon motivo per comprare ancora euro.
Per ora non è successo. La grande fuga dal dollaro rischia però nel medio termine di azzoppare un po’ la timida ripresa del pil italiano. Il motivo? Gli Stati Uniti sono il terzo mercato per l’export italiano, la locomotiva che ha trainato negli ultimi mesi il Bel Paese. E con il biglietto verde a prezzi di saldo, le nostre merci sono meno competitive. Nel 2016 gli Usa hanno comprato 36,9 miliardi di prodotti tricolori. A far la parte del leone meccanica di precisione, auto e alimentari. Un pedaggio salato rischiano di pagarlo pure le griffe della moda, come ha sottolineato ieri in uno studio la Hsbc. A festeggiare sono invece i turisti in viaggio negli Stati Uniti. A inizio anno una camera d’albergo da 150 dollari a New York sarebbe costata 144 euro. Oggi, con le quotazioni del dollaro finite sotto i tacchi, la stessa stanza ne costa 125.