La Lettura, 10 settembre 2017
Ken Follett: Potevo essere Bill Gates Invece sono Falstaff, forse
Qui, nel giardino di Hatfield House, Lady Elisabetta Tudor venne raggiunta dalla notizia che con la morte del padre Enrico VIII era diventata regina. Secondo la leggenda era seduta sotto una quercia, con un libro in grembo. Il parco è rimasto quasi intatto, l’albero resiste (sarà proprio lo stesso?), così come il salone principale del palazzo dove la neosovrana tenne il suo primo consiglio di Stato. Oggi è la dimora dei marchesi di Salisbury, che a Hatfield occupano gli edifici «moderni» (XVII secolo): l’antica Great Hall è aperta ai turisti. Viene utilizzata per conferenze e matrimoni. Gli arazzi alle pareti non sono veri, le sedie disposte lungo i muri sono imitazioni, ma è impossibile cancellare la storia.
È questa tenuta a un’ora da Londra che Ken Follett, tra i giallisti più venduti al mondo, sceglie per parlare del suo nuovo romanzo, La colonna di fuoco, perché è in parte alla sua esistenza che si deve il libro. Così funziona la mente di uno scrittore. Basta un dettaglio, come il ritratto di Elisabetta in cui la principessa tiene in mano un arcobaleno che i marchesi Salisbury espongono nell’ingresso di casa. Non sine sole iris : l’arcobaleno è impossibile senza il sole. «La saggezza di una regina che promette stabilità e prosperità», racconta Follett, che con i suoi capelli bianchi curati, gli occhi arzilli e la camicia azzurra cifrata è l’opposto dello stereotipo dello scrittore torturato e trasandato. Da un momento nascono 912 pagine (in italiano) fitte di intrighi, spionaggio e colpi di scena, pronte adesso per essere divorate dai lettori, che negli anni – giurano i suoi editori – hanno acquistato 160 milioni di copie dei sui romanzi.
Per Follett si tratta di un ritorno al mondo di Kingsbridge, la cittadina creata per I pilastri della Terra e rivisitata per Mondo senza fine. È il 1558. Il potere in Inghilterra oscilla tra cattolici e protestanti. La fede sbagliata può significare la morte, «perché non è la religione il nemico, ma l’intolleranza» e non solo nell’Inghilterra di Elisabetta I.
La tensione tra religioni accompagna il lettore dalla prima all’ultima pagina. È un tema che la interessa in modo particolare?
«È un elemento della struttura del libro, anche perché si presume che la maggior parte dei lettori abbia dimenticato le cose imparate a scuola. Quello che mi piace però è che, sotto la tensione, c’è una storia che va raccontata, che è la lotta per la libertà, in questo caso la libertà religiosa. È una battaglia che viene combattuta nel XVI secolo prima di quella per la libertà di parola, prima ancora che nascesse l’idea di una legge uguale per tutti, incluso il sovrano o oggi Donald Trump. È la prima libertà per la quale si lotta».
È una lotta che va avanti: la sua è una storia che trova eco nel mondo di oggi.
«È la ragione per la quale il XVI secolo è così interessante. Abbiamo persone che ne uccidono altre perché credono fermamente di essere nel giusto, allora come oggi. La religione viene spesso utilizzata come giustificazione. Se vogliamo, lo ha detto anche Bob Dylan in With God on our side».
I personaggi femminili sembrano venirle particolarmente bene. È d’accordo?
«Credo che ci sia una particolare affinità: tutti i miei libri hanno personaggi femminili molto forti. In generale sono personaggi con i quali la gente si sente molto a proprio agio. Da un punto di vista pratico, ciò che per un uomo è difficile, in un’ambientazione storica diventa automaticamente due volte più difficile per una donna, cosa che è molto utile per uno scrittore. Credo però che il mio interesse sia frutto soprattutto del periodo in cui sono nato e cresciuto. Erano gli anni della seconda ondata del femminismo. Le ragazze che allora ci piacevano parlavano di questi temi e noi saggiamente ascoltavamo. La generazione di mio padre non ha avuto questa opportunità. Era cresciuto in un ambiente completamente diverso. Per lui è stata dura. Tra l’altro frequentava, e noi con lui sino a quando non mi sono stufato, una chiesa dove le donne non potevano parlare (la chiesa cristiana dei fratelli di Plymouth, gruppo fondamentalista nato all’inizio del XIX secolo, ndr )».
Sua madre che cosa ne pensava?
«Questa è una domanda interessante. Non si sarebbe mai permessa di criticare le regole ma non credo che le andassero bene. Prima della mia nascita aveva fatto la segretaria in un gruppo industriale a Cardiff. Allora era una posizione molto alta per una donna. Dopo la mia nascita non lavorò più ma non credo che ne fosse contenta».
Nel periodo di «La colonna di fuoco», invece, c’era una donna al potere.
«Era pieno di donne. Elisabetta I, Maria Stuarda e Caterina de’ Medici, una donna potentissima che è stata moglie di un re, regina e madre di tre sovrani».
Nel suo libro Elisabetta è energica e vitale. È un ritratto accurato?
«Sappiamo da diverse biografie che incuteva un certo timore e che non risparmiava commenti incisivi e bruschi. Come suo padre era molto indipendente. Enrico VIII divise la Chiesa perché non voleva essere comandato dal Papa. È un po’ quello che ha fatto anche Elisabetta».
Non solo per rispettare la visione di suo padre, allora?
«No, Enrico VIII non era un uomo capace di avere quest’impatto sui figli. Elisabetta lo imitò, certo, ma lo fece perché per lei l’indipendenza era fondamentale. Era una donna molto intelligente e politicamente molto abile. È straordinario come rimase indipendente, facendo credere che avrebbe sposato prima uno, poi l’altro dei suoi pretendenti, un gioco che portò avanti sino a cinquant’anni inoltrati. A un uomo non sarebbe riuscito».
Questo è un libro che la riporta a Kingsbridge, una cittadina particolareggiata al punto che al lettore sembra vera. Figura anche su Wikipedia. È stato bello tornarci?
«Sta diventando una metafora per l’Inghilterra. Se avessi saputo che avrei scritto di questa cittadina per tanti anni avrei inventato un nome più interessante. Per me è parte della trama, non è solo lo sfondo. È importante che il lettore sappia orientarsi e immaginare dove si trovano le case dei protagonisti. È straordinario come era collegato il mondo già allora, nonostante le difficoltà, i tempi e i mezzi. Era già un mondo globale. Ci volevano 9 giorni per far giungere un messaggio a Londra da Parigi, oggi ci vogliono 9 nanosecondi, ma l’argento arrivava dall’America del Sud, ad Anversa c’erano le banche, la Francia aveva l’industria tessile».
Per lei è difficile lasciare i personaggi alla fine di un libro?
«Mi affeziono ma no, alla fine non mi dispiace lasciarli, perché li ho fatti vivere. La fine di un libro è la fine di una relazione intensa».
Che cosa richiede questa relazione? Come si crea un bestseller?
«Disciplina e concentrazione. Per me la routine è fondamentale. Studiare, pianificare, scrivere, la mattina dopo rileggere quello che ho scritto e riscriverlo. Ho i miei trucchi. Ad esempio, la mia seconda stesura non è una rielaborazione della prima. Ribatto tutto, dalla prima all’ultima parola».
Perché?
«Perché a volte quando leggo quello che ho scritto mi dico, ah però, bello. È solo quando riscrivo, quando ribatto ogni lettera, che mi rendo conto di come migliorare il testo».
Oltre novecento pagine sembrano la sua lunghezza standard...
«È un formato che va bene a me e apparentemente anche al lettore. All’inizio, quando ho cominciato, scrivevo molto meno. Il problema dei miei primi libri era che erano troppo brevi. D’altronde nasco come giornalista e quando scrivi per un pomeridiano non hai il tempo o lo spazio per raccontare l’atmosfera, i dettagli».
Scrivere la mantiene giovane?
«Quando ho finito l’università mi furono offerti tre lavori. Giornalismo, marketing e informatica. Se avessi scelto il terzo forse oggi sarei Bill Gates...».
Ma è Ken Follett.
«E ne sono felice. Per me smettere di scrivere sarebbe come finire in purgatorio».
L’agente Alan Zuckerman le disse una volta che il suo problema era che non era un’anima torturata.
«Ci sono scrittori che scrivono perché dentro hanno il dolore, come Pat Conroy, che è chiaramente un uomo che da giovane ha sofferto. Tutti i suoi libri, in fondo, hanno la stessa chiave, trattano lo stesso tema: le prepotenze del padre e dei cadetti di West Point. Ho smesso di leggerlo. Lo trovo ripetitivo. Io non sono così. Non sono Amleto. Forse sono Falstaff, ma sicuramente non sono Amleto».
Lei legge fiction storica?
«Non spessissimo. Ho letto tutte le avventure di Cadfael, il monaco benedettino creato dalla scrittrice Ellis Peters».
E Hilary Mantel?
«La trovo difficile. Per tanto tempo è stata una scrittrice con ottime recensioni e poche vendite, poi ha trovato il successo con Wolf Hall. Per me è poco chiara. La scrittura poco chiara mi dà fastidio, forse proprio perché ho cominciato come giornalista».
Riesce a non scrivere? Come si rapporta al concetto di vacanza?
«Quando finisco un libro mi impongo due settimane di pausa, ma dopo dieci giorni mi annoio».
Quali sono i suoi autori preferiti?
«Come giallista Lee Child. Aspetto golosamente i suoi libri e li leggo appena escono. Adoro i classici. Credo di aver letto tutto quello che ha scritto Anthony Trollope. Dickens è lo scrittore che più di ogni altro mi fa pensare perché non posso scrivere come lui».