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 2017  settembre 09 Sabato calendario

Le trame del genio

Parliamo di fashion system e di vittime del sistema della moda come di un fenomeno contemporaneo, ma la verità è che il desiderio scatenato oggi da un vestito griffato è lo stesso che nel Rinascimento suscitavano altri tipi di tessuti firmati: gli arazzi disegnati dai grandi artisti.
L’Armani del tempo, inutile dirlo, era Raffaello. Quel grande scialacquatore di fortune che fu papa Leone X gli commissionò i cartoni, ossia i disegni da ricopiare con precisione mediante fili di seta, lana, oro e argento, per gli arazzi della Cappella Sistina. Mai si era visto prima qualcosa di simile: innanzi tutto quei disegni che illustravano gli Atti degli Apostoli introducevano lo spazio rispetto all’unico piano di superficie degli arazzi precedenti; poi c’era il dinamismo dei gesti; infine, facevano piazza pulita dei dettagli minuti su cui per secoli aveva indugiato la tradizione tessile nordica. L’esecuzione, tra il 1515 e il 1523, fu affidata alla manifattura di Pieter van Aelst, a Bruxelles. I disegni furono replicati diverse volte (in qualche versione gli artigiani non riuscirono a trattenersi dalla passione per i fiorellini con cui cosparsero la veste del Cristo) e introdussero un nuovo stile, sancendo così la supremazia definitiva dei pittori sugli arazzieri. Se dal Medio Evo l’arte dell’arazzo era stata una creazione libera e originale del tessitore, dalla fine del 400 iniziò a scivolare verso un semplice valore artigianale.
Di altissimo livello, certo, ma il più fedele possibile al modello del grande pittore. Come accadde insomma negli anni Ottanta del Novecento alle sarte, oscurate dallo stilista che magari non sapeva cucire, ma disegnava modelli da sogno. Così anche Parigi e Arras, che erano stati i principali centri manifatturieri, dalla fine del Quattrocento dovettero cedere lo scettro a Bruxelles che diverrà per oltre un secolo la capitale europea grazie al decisivo gemellaggio con l’Italia dove pittori come Pontormo, Bronzino, Pietro da Cortona, fornivano i disegni.
Tutti gli altri arazzieri potevano realizzare creazioni «carine», anche di buona esecuzione, ma non certo pezzi firmati che richiedevano un lunghissimo tempo di esecuzione per rispettare le calibrate armonie dei colori, la raffinatezza del disegno, le espressioni dei volti.
Inutile dire che dopo la Rivoluzione francese gli arazzi, strumenti di ostentazione di rango, ricchezza e potere, lasciarono il posto al lusso più borghese dei quadri da salotto. Salvo poi risorgere nella seconda metà dell’Ottocento grazie all’utopia socialista del pittore e designer inglese William Morris che individuò nel ritorno alla manifattura artigianale il mezzo per superare l’alienazione del lavoro capitalistico. E un nuovo revival, con l’analogo intento di introdurre la bellezza nella vita quotidiana e lottare contro l’indifferenza ai valori estetici della produzione di massa, fu suscitato nel Novecento dalla Wiener Werkstätte e dal Bauhaus che riportarono in auge la tessitura, ma questa volta grazie alla produzione industriale permettendo così di arrivare al «prêt-à-porter dell’arazzo»: l’artista produce il disegno, ma poi l’esecuzione a macchina in migliaia di esemplari abbatte i costi. Con le esperienze futuriste di Depero o Balla la pratica del disegno per i tessuti ha infine assunto persino un connotato anarchico e antiborghese, in polemica contro il «passatismo» culturale benpensante e borghese.
Ma la mutazione sociale e artistica dell’arazzo non è ancora finita perché Alighiero Boetti, negli anni Settanta, gli ha anche conferito un ruolo concettuale di polemica politica facendo tessere alle donne afghane, per interposta persona dell’artista, la sua opera d’arte collettiva. E pensare che l’arazzo era nato per proteggersi dai freddi muri dei castelli medievali.