il Fatto Quotidiano, 11 settembre 2017
In Italia si muore di sport. Una vittima ogni tre giorni
Morire durante la partitella di calcetto, l’uscita in bici con gli amici, l’allenamento in palestra. Capita troppo spesso in Italia: la tragedia dell’ex nuotatore Mattia Dall’Aglio è solo l’ultimo caso di una lunga serie. Negli ultimi 10 anni oltre 1.100 persone sono decedute per arresto cardiaco mentre facevano sport. Praticamente una ogni tre giorni.
Perché fare attività fisica fa bene alla salute, ma solo in condizioni di sicurezza. E queste in Italia spesso non ci sono: l’unica legge che avrebbe potuto salvare delle vite, imponendo la presenza obbligatoria dei defibrillatori negli impianti, ci ha messo quasi 4 anni per entrare in vigore. E quando lo ha fatto, è stata resa quasi inutile dal ministro Lotti
Docce con impianti elettrici vecchi, strutture fatiscenti che cadono a pezzi, buche nei campi, ferri arrugginiti: i motivi di pericolo in palestra o sui campi da gioco sono i più disparate. Ci sono pagine e pagine di requisiti da rispettare perché un impianto venga dichiarato a norma. E probabilmente la percentuale di chi non lo fa è alta.
Queste, però, sono cause d’incidente rare, il più delle volte meno gravi, su cui c’è comunque un tempo di intervento maggiore. I morti per sport in Italia, invece, hanno quasi tutti la stessa causa: l’arresto cardiocircolatorio, l’infarto. Negli ultimi 10 anni le vittime sono state per la precisione 1.151. Ma il dato, aggiornato al 31 dicembre 2016, è già aumentato. Le ha raccolte una per una la Fondazione Giorgio Castelli, in prima linea nella battaglia per la sicurezza degli sportivi.
“Una verifica a tappeto di tutti gli impianti è quasi impossibile, così come prevedere la presenza di un sanitario in ogni struttura per gli altri malori fatali”, spiega Giorgio Castelli, che dà il nome all’associazione. “Tante di queste morti, invece, si poteva evitare”. Come? Con il defibrillatore, il salvavite per eccellenza, e ovviamente di qualcuno in grado di utilizzarlo: secondo la letteratura scientifica, è in grado di salvare il 30% delle persone colpite.
A questo sarebbe dovuta servire la legge Balduzzi, che porta il nome dell’ex ministro della Sanità del governo Berlusconi. Fu approvata a fine 2012, sull’onda emotiva della scomparsa di Piermario Morosini (il calciatore morto in diretta tv), e prevedeva l’obbligo di dotazione di defibrillatore. Per vederla entrare in vigore ci sono voluti 1.423 giorni, ma neppure questo provvedimento, spacciato come una svolta storica dalla politica, risolverà il problema.
Il ministro dello Sport, Luca Lotti, si è intestato il merito della sua applicazione: il decreto che finalmente a giugno ha sancito l’entrata in vigore, porta in effetti la sua firma. Ma ha una grave colpa: aver depotenziato l’obbligo previsto originariamente della legge. Dal 1° luglio in tutti gli impianti sportivi aventi “carattere permanente” dev’esserci un defibrillatore semiautomatico. La presenza del personale formato (ovvero di chi è in grado di utilizzarlo), invece, è limitata alle “gare inserite nei calendari delle Federazioni, delle discipline associate o degli enti di promozione sportiva”. Una definizione molto circoscritta, da cui ad esempio sono esclusi gli allenamenti. E a morire di sport sono anche e soprattutto gli amatori: l’84% delle vittime (965 sul totale di 1.151) sono non tesserati.
Lo dicono i numeri: appena il 31% degli episodi si verifica in gara; includendo il post e il pre, ci si avvicina al 40%. La maggioranza degli sportivi, insomma, resterà ancora fuori copertura. “L’errore è nell’impostazione: la legge doveva essere rivolta alla protezione della struttura, non dell’evento”, commenta il dottor Castelli. Tra le ragioni del passo indietro, forse, c’è il timore di mettere in difficoltà le società più piccole, considerato che un defibrillatore si aggira intorno ai mille euro, a cui bisogna aggiungere i costi del personale. Sta di fatto che la legge è nata monca: “Il provvedimento era e resta importante, ridurrà il numero delle vittime, ma non è quello che ci aspettavamo: c’è ancora tanto da fare”.
Anche perché bisognerà verificare la sua reale applicazione. I risultati del censimento degli impianti sportivi Coni (progetto pilota già realizzato in 4 Regioni) erano inquietanti, e spiegano il perché dei tanti rinvii: a fine 2016, l’86% degli impianti censiti nel Paese era sprovvisto (col picco del 95% in Molise). Ora sarebbero tutti fuorilegge. “Ci auguriamo che le società abbiano sfruttato questi ultimi sei mesi per mettersi in regola”, conclude Castelli. “Probabilmente ci vorrà un’altra tragedia per smuovere le acque: quando la prossima volta ci metterà becco la magistratura, forse le cose cambieranno realmente”. Solo durante le gare degli agonisti, però. Per tutti gli altri non resta che sperare.
Le storie
L’ex nuotatore stroncato in palestra
Mattia dall’aglio mentre si allenava lo scorso 7 agosto è stato colpito da un malore improvviso, ancora inspiegabile: l’autopsia per il momento ha chiarito solo la causa del decesso: arresto cardiocircolatorio, la stessa di Piermario Morosini. Un pompiere ha trovato il suo corpo già senza vita e i tentativi di rianimazione sono stati inutili. L’ex nuotatore, scomparso a 24 anni a Modena nella sala della sua palestra (o meglio, una stanza attrezzata con macchinari da fitness e pesi nei pressi della piscina dei vigili del fuoco), è solo l’ultimo sportivo morto in ordine di tempo. Prima di lui ce ne sono stati oltre un migliaio.
Laureato con una tesi su Morosini
Angelo marco giordano Trentadue anni, allenatore e istruttore, professore di educazione fisica, un tipo in perfetta forma, con tanto di certificato rilasciato per l’attività agonistica. È morto a Mestre lo scorso 20 febbraio mentre giocava a pallone con gli amici, la sua passione: aveva appena dato il cambio a un compagno di squadra, quando si è sentito male, si è accasciato
e ha smesso di respirare. Colpa di un arresto cardiaco assolutamente imprevedibile, come successo quattro anni fa in Serie B a Piermario Morosini. Ironia del destino, Giordano si era laureato in scienze motoristiche proprio con una tesi sull’ex giocatore del Livorno.
L’idoneità sportiva era scaduta
Eugenio Rossetti aveva 16 anni e giocava a basket. Era considerato un piccolo talento nella sua città, Trieste, tanto da giocare nel campionato Eccellenza degli Under 20. Proprio in una gara ufficiale a Mazzano, in provincia di Brescia, è avvenuta la tragedia a ottobre 2016: il ragazzo si è fermato, ha chiesto il cambio. Sembrava un semplice affaticamento, ma una volta sedutosi in panchina si è sentito male. La procura ha aperto un’indagine per omicidio colposo: l’idoneità sportiva, obbligatoria per l’attività agonistica, era scaduta e il ragazzo non veniva sottoposto da tempo a controlli medici che avrebbero potuto scoprire la sua malformazione cardiaca.
Per lui non c’era nulla da fare
Elia longarini Giovane, giovanissima promessa del rugby: aveva solo 12 anni quando è morto sul campo di allenamento della sua Macerata nel gennaio 2015. Gli esami hanno poi rivelato che aveva una malformazione cardiaca molto rara del tutto asintomatica e difficile da rilevare con i normali controlli a cui viene sottoposto chi pratica l’attività sportiva. Secondo i periti anche i soccorsi, se fossero intervenuti per tempo, non avrebbero avuto la possibilità di salvarlo. Per lui, insomma, non c’era nulla da fare. In suo ricordo è stato intitolato il terreno di gioco di Villa Potenza, la frazione di Macerata di cui il ragazzino era originario.