il venerdì, 8 settembre 2017
Lady Oscar pachistana batte pure i talebani
A quattro anni brucia la gonna con le perline nel cortile di casa. Poi si taglia pure i capelli: non vuole lasciare un filo di dubbio. Lei vuole sembrare proprio un maschio. Anzi «la verità è che io, maschio, mi ci sentivo» dice Maria Toorpakai Wazir. Quando diventa adolescente, gonfia i muscoli con il sollevamento pesi. Nei pomeriggi di noia le basta guardare un film su Rocky Balboa per sentire sabre l’istinto di fare rissa in strada.
E picchia. Sì, Maria picchia anche, e picchia duro. Prende la prima sberla da un mullah, «ero piccola e volevo giocare coi ragazzi; lui mi chiamò “ragazzina impura“e in due secondi ero a terra». A dodici anni è Maria a darle di santa ragione: in lei ce «un gigante chiuso in una scatola da scarpe» che spinge per uscire.
Nata ventisei anni fa in una delle regioni più retrograde e integraliste del Pakistan, il Waziristan del Sud, al confine con l’Afghanistan, sin da piccola Maria conosce le regole per la sopravvivenza: una donna gira a volto coperto, non studia, non fa troppe domande. Non fa sport. A sorvegliare sul rispetto delle regole c’è l’occhio severo dei talebani.
Ma qualcosa sfugge al controllo. Un maschiaccio insolente comincia a farsi notare, vince gara dopo gara: prima conquista l’argento per il sollevamento pesi – con il nome posticcio di Gengis Khan e poi diventa campione di squash. Quel maschiaccio è Maria, gioca come fosse un uomo fino a sedici anni. Poi si sparge la voce: c’è una ragazza pashtun in squadra. Gioca senza velo e straccia tutti.
Oggi la Lady Oscar dello squash è fresca di vittoria: nel giorno dell’indipendenza dej Pakistan, ha vinto il campionato nazionale di uno degli sport più seguiti del Paese. La sua storia è stata raccontata nell’autobiografia La figlia diversa (Rizzoli) e nel docufilm Girl Unbound di Erin Heidenreich. Maria-Gengis vive al confine: nel mezzo tra l’America del Nord, dove da ragazzina ha trovato riparo (prima il campione canadese Jonathon Power si è offerto di allenarla, poi New York è diventata una seconda casa) e il Pakistan, dove è tornata. Nel mezzo tra gli allenamenti – «quel mio istinto guerriero» – e le minacce di morte «sempre più insistenti». Nel mezzo tra essere donna e «sentimi maschio».
Davvero crede che fingere di essere qualcun altro – nel suo caso un uomo – sia la strada giusta per battere le discriminazioni?
«Quando la mia storia viene raccontata, tutti dicono che ho “fatto il maschio“perché volevo poter giocare. Che ero costretta a farlo. La verità è più complessa: io mi sentivo un maschiaccio, un tomboy. Vuol sapere se ho il ragazzo o la ragazza? Al momento concentro tutte le mie energie sullo sport e sulla lotta per le donne. Ho messo su una fondazione per realizzare scuole e ospedali (ne stiamo costruendo uno proprio ora), oltre che per educare anche le femmine allo sport».
Cosa rischia per queste scelte?
«La mia stessa esistenza è figlia di un azzardo. Il rischio comincia prima ancora della mia nascita: da giovane mio padre, che è di origine aristocratica, venne internato in un ospedale psichiatrico per aver osato difendere in assemblea il diritto delle donne all’istruzione. Di indole pacifica, è stato sempre considerato un rinnegato, un ribelle. Come mia madre, che oltre a studiare ha insegnato in collegi femminili dove si facevano i compiti con la paura delle bombe. Ayesha Wazir, mia sorella, fa politica e per le sue idee riceve minacce di morte. Io pure tutti i giorni rischio la vita: i talebani ci tengono sotto tiro».
Perché si ostina con lo squash, allora?
«Meglio un giorno da leone che cento da gazzella. Sin da piccolissima ho voluto correre e giocare come tutti gli altri, come i maschi. Quella energia da leone, io la sentivo esplodere dentro. Dovevo dare sfogo alla rabbia: lo sport per me è stato innanzitutto questo. Un’alternativa alla rissa. Ora non ho alcuna intenzione di rinunciare a essere me stessa, o a lottare perché altre possano farlo».
Lei ha messo su molti muscoli pc stracciare gli avversari. Ma sostien che la vittoria è questione di testa.
«Esatto. Vincere è un processo, è ur stato mentale. Persino nel sollevarne] to pesi, che sembra una pura dimostri zione muscolare, la vittoria cornine: dalla testa».
Nella sua cosa scatta? Perché insegt il podio, e come ci arriva?
«Platone dice che vincere se stessi è la più nobile delle vittorie. Me lo ha insegnato Baba, papà. Ma pure uno dei miei primi allenatori, sorpreso dalla mia energia e dalla mia furia, mi ha insegnato che giocare contro i propri demoni è l’unica strada per arrivare al podio».
Dal giorno in cui si finse Gengis Khan, fino a oggi che è diventata una campionessa nazionale, qualcosa è cambiato nel suo Paese?
«Anzitutto, io sono stata la prima ragazza del Pakistan tribale ad essere ammessa ai tornei intemazionali, da allora abbiamo scompigliato un po’ le carte: oggi giocano 17 donne. Poi, tante ragazzine mi scrivono dicendomi che la mia storia è di incoraggiamento. Per fare sport, o per non ) farla finita. Non è l’Islam (la mia famiglia è musulmana) né l’intero Pakistan, a limitare le donne, ma l’integralismo. Convoi gliare energie nello sport è un modo per combattere gli estremismi. Si insomma, i per non rimanerne vittime. In generale, qualcuno che faccia da apripista aiuta. Mia sorella ad esempio rimase colpita da Benazir Bhutto, quando mio padre la portò a sentire un suo comizio. La mia famiglia pagò la scelta di andare all’evento: venimmo tutti banditi dalla tribù. Ma oggi Ayesha fa politica con coraggio e porta avanti le sue idee nonostante le minacce dei talebani».
Una famiglia di ribelli, la sua.
«Si. Mio padre per le nozze regalò a mia madre un giubbino Levi’s. Mi ha aiutata a bruciare i vestiti da femmina. Mio fratello, che si allenava con me, mi coprì le spalle quando, durante una gara di sollevamento pesi, ci chiesero di spogliarci: lui si fece avanti e disse che si vergognava a restare nudo sulla bilancia. Dissi: “anch’io”. E la feci franca».
Un giorno lei è scappata in Canada. Oggi parla con noi dal Pakistan. Perché la fuga, perché il ritorno?
«In passato ne ho prese, di botte, pure da gente che passava per strada. Ho sentito il sangue mischiarsi con la saliva fino a svenire. Quando le minacce si fecero pesanti, dovetti chiudermi in casa per tre anni, come un cane in gabbia. Così cominciai a mandare mail alle varie accademie internazionali. Il campione Jonathon Power dal Canada mi rispose, mi accolse, mi allenò. Anche oggi, la mia famiglia rischia. Ma il mio Paese è a una svolta e non mi arrendo. In generale, nella vita, nello sport, sempre, la mia regola è quella: meglio un giorno da leone...».
Francesca De Benedetti