Vanity Fair, 6 settembre 2017
Danilo Gallinari: il ragazzo da 65 milioni di dollari
Agosto non è andato come si aspettava Danilo Gallinari. Il piano era aiutare la Nazionale a fare bella figura agli Europei di basket, iniziati il 31 agosto. Lui. simbolo e giocatore più forte della sua generazione, durante questa intervista aveva detto che l’ingrediente segreto della squadra sarebbe stata la rabbia, accumulata dopo tante delusioni. Evidentemente Danilo ne aveva anche troppa, visto che poco dopo la nostra conversazione l’ha usata male e quando non serviva. In un’amichevole con l’Olanda ha rifilato un pugno a un avversario durante un’azione e si è fratturato la mano. Niente Europei e molta vergogna. per aver lasciato i compagni senza il suo aiuto a causa di una reazione istintiva. Dopo la radiografia, ha chiesto scusa a tutti, si è preso le sue colpe e ha fatto i bagagli. Certo, anche se il suo agosto è stato rivedibile, nel complesso Gallinari non se la passa male. Il suo passaggio dai Denver Nuggets ai Los Angeles Clippcrs, nell’Nba americana (l’Olimpo del basket, si riparte il 18 ottobre, «sono quasi pronto per giocare» ha detto al sito Tmz), ne fa lo sportivo italiano più pagato, grazie al suo contratto triennale da 65 milioni di dollari. «Il mio sogno è vincere in America, entrare nella Hall of Fame dei più forti e poi se le gambe reggono chiudere la carriera nella mia Olimpia Milano».A Milano resta così legato da aver fatto partire, con Prodea Group, una bella iniziativa legata ai campetti di pallacanestro da strada. Il progetto We Play-Ground Toget/ier serve a rimettere in sesto i playground urbani. Il primo a ricevere questo restyling, con il supporto dell’assessorato allo sport del Comune di Milano, sarà quello del Parco Marinai d’Italia.
Danilo, perché questa iniziativa?
«È un’idea che avevo da qualche anno. Io sono partito dai campetti, in generale la pallacanestro è partita da lì».
Quali sono stati i suoi primi campetti?
«Avevo sei, sette anni. Mio padre (Vittorio, uno dei cestisti simbolo degli anni Ottanta nell’Olimpia Milano, ndr) girava l’Italia, mi ricordo nei suoi ultimi anni da giocatore, per le strade di Verona e Livorno. portavo una palla, mi facevo accompagnare da mia mamma e tiravo da solo per ore e ore con lei che aspettava che io finissi. Già allora avevo in testa solo la pallacanestro».
Perché è bello il basket dei campetti?
«In palestra è tutto pulito, nei campetti ti sporchi, molti poi hanno regole a sé. Sono speciali, per questo mi piace ancora frequentarli».
Nonostante la carriera, l’Nba e tutto?
«Sì, vado in giro con un paio di amici, vedo chi trovo, di solito vogliono una foto, un autografo, poi si comincia a giocare».
Non li fa vincere, vero?
«Devo vincere io in ogni cosa. Sempre, davvero, sennò mi arrabbio molto. Anche se è il campetto di quartiere. I miei amici lo sanno. O si gioca sul serio o non si gioca».
Selfie, autografi: le piace o le dà fastidio?
«A me piace stare tranquillo, per conto mio, principalmente. Ma cerco di non dire mai di no, perché finché succede vuol dire che le cose mi stanno andando bene».
I suoi manager sono i suoi genitori. Perché è meglio che resti tutto in famiglia?
«Mi fa essere più spensierato sapere che le persone che ho intorno non hanno secondi fini. Così io posso pensare solo a giocare. Qualunque problema c’è, lo si affronta in famiglia. Io mi sono fatto un tatuaggio che lo spiega meglio di come posso fare a parole».
Sentiamo.
«Ci sono i punti cardinali, con le iniziali di mia mamma, mio papà e mio fratello e il numero 8, che è il mio numero, io sono nato l’8/8/88. AH’interno c’è una palla da basket circondata dal fuoco, al centro della palla c’è un gallo».
Una mappa della sua vita che dice: la famiglia è tutto.
«E che qualunque problema, affrontato in famiglia, è più facile da risolvere. Parliamo veramente di tutto, senza nessun tabù. Mio padre è anche il mio migliore amico, la mamma uguale. Avere avuto genitori così moderni è stata la mia grande fortuna».
Chi è più forte: lei oppure suo padre ai tempi?
«In famiglia è oggetto di continui sfottò e prese in giro. Lui è stato tra i giocatori più vincenti nella storia della pallacanestro italiana, ma io sono andato lì dove lui non era mai riuscito ad andare. Lui dice che ai miei tempi chissà cosa avrebbe fatto. E la prima volta che l’ho sconfitto nell’uno contro uno me la ricordo ancora».
Le piaceva vivere a New York?
«Abitavo a un’ora di strada da Manhattan, a New York mi riconoscevano tutti, era difficile fare un giro di shopping o uscire la sera. Si fa una vita frenetica, tutti sono sempre esausti. Denver, dove poi mi sono trasferito, è una città ma sembra un paesino, era come passare da Milano a Lodi. Poi in Colorado sono tutti fissati con l’attività fisica, il cane, la natura, i laghi, le montagne».
E ora vivrà a Los Angeles, come se l’aspetta?
«La cosa più bella è il bel tempo tutto l’anno, così tutto il relax che vuoi te lo puoi prendere in spiaggia. È più incasinata di New York, c’è più traffico, ma è meno frenetica».