Libero, 7 settembre 2017
Vietato ridurre la paghetta alla figlia «fuori corso»
A 26 anni si èpiù vicini ai 30 che ai 20. Si è cioè più prossimi alla categoria degli adulti che non a quella dei ragazzi. L’osservazione apparirà banale, ma in Italia conviene non dare più nulla per scontato. La logica e il buon senso, infatti, vengono spesso e volentieri maltrattati, specie se di mezzo ci sono dei giudici, circostanza verificatasi anche nel caso di cui stiamo per occuparci.
Un’universitaria 26enne di Pordenone ha denunciato il proprio padre, assieme al quale convive dopo la separazione dei genitori, poiché quest’ultimo le corrisponde una paga da lei ritenuta non congrua. Per l’esattezza, la giovane ha chiesto di percepire la modica cifra di 2.577 euro mensili, ossia l’equivalente di un più che decoroso stipendio. Nella somma, bontà sua, la studentessa ha incluso le spese per gli svaghi e per le vacanze, quantificate rispettivamente in 400 euro al mese e in 1000 euro all’anno. E, nella speranza di ricevere questo denaro con cui seguitare a mantenere l’elevato tenore di vita a cui è abituata, si è appunto rivolta al tribunale, accusando il babbo di non rispettare l’impegno a mantenerla assunto in sede di divorzio.
Il punto è che il papà, pur non avendo problemi di tipo economico, aveva comprensibilmente ritenuto giusto ed educativo ridurre i compensi alla figlia portandoli a 20 euro alla settimana ed eliminando l’appartamento accanto all’università, ma provvedendo a ogni altra esigenza (vestiario, benzina, spese sanitarie e via dicendo) dal momento che la fanciulla tarda alquanto nel conseguire la laurea triennale.
Sia in primo grado che in appello, tuttavia, i magistrati hanno dato ragione alla figlia e torto al padre, imponendogli di versare fino al 30 giugno del 2019 500 euro al mese per le «spese personalissime e ludico-ricreative, anche straordinarie». È vero che la giovane non si è impegnata né nello studio né nel lavoro, hanno detto i giudici, ma va considerato che il tutto è accaduto in un contesto nazionale caratterizzato da «una certa inerzia nella maturazione che porta all’indipendenza dei giovani». Dunque, benché la cifra pretesa sia stata ridotta, la figlia ha visto accolta la propria richiesta. Siamo di fronte a un avallo con tutti i crismi (e non è certo il primo) dei cosiddetti bamboccioni, nonché a un poco opportuno contributo ad alimentare quella «certa inerzia nella maturazione» evidenziata proprio dalla corte.
Una sentenza del genere ha almeno una grave ricaduta e rappresenta una conferma eclatante di alcuni aspetti peculiari dell’Italia contemporanea. Tutte cose di cui c’è poco da essere entusiasti. La conseguenza più macroscopica è l’ennesima delegittimazione della figura genitoriale, già di suo in grave deficit di autorevolezza. Che credibilità avrà più un padre così sonoramente sbugiardato nei suoi metodi educativi nientemeno che da una corte giudicante? Nessuna, ammesso che una ne abbia mai avuta. Si comprende poi come l’università sia oggigiorno considerata perfino dai magistrati alla stregua di un parcheggio: una sorta di passatempo, per quanto costoso (per i malcapitati genitori), con il quale intrattenersi a piacimento, magari ampiamente oltre la soglia dei trent’anni. A uscire molto male da una simile vicenda sono pertanto anche l’istituzione scolastica e il concetto stesso di diritto allo studio.
Non bastava insomma la nota inclinazione della magistratura a invadere campi non di sua stretta competenza: sembra ormai determinata a farsi supplente anche di scuola e famiglia. E a proposito di famiglia, in questi giorni è ancora in corso una furibonda polemica sullo spot pubblicitario di una merendina in cui si vedono madre e padre disintegrati da un meteorite caduto dal cielo. Alla luce di quanto successo a Pordenone, sarebbe forse stato meglio se l’asteroide, anziché papà e mamma, avesse incenerito qualche giudice.