il Fatto Quotidiano, 8 settembre 2017
Derivati, Morgan Stanley prova a offrire le briciole
Un colosso della finanza mondiale costretto a trattare con lo Stato italiano. Finora, però, il risultato è stata un’offerta irrisoria, quasi offensiva. È quanto è avvenuto – seppure a livello solo informale – nei giorni scorsi. Secondo quanto ricostruito dal Fatto in ambienti finanziari, la banca americana Morgan Stanley avrebbe ventilato alla Procura della Corte dei conti del Lazio la possibilità di evitare il processo per danno erariale in relazione ai derivati venduti allo Stato italiano con una transazione. I pm contabili contestano un danno da 3,9 miliardi, di cui 2,7 alla banca e 1,2 ai dirigenti del ministero dell’Economia che gestirono a vario titolo la stipula dei contratti: la responsabile del debito pubblico Maria Cannata (1 miliardo), il direttore generale Vincenzo La Via (112) e gli ex ministri Domenico Siniscalco (89) e Vittorio Grilli (23). Problema: a fronte dell’enorme danno contestato – 2,7 miliardi appunto – Morgan Stanley ha ipotizzato di chiudere i conti con appena 30 milioni di euro, trovando così le porte chiuse. Considerata l’entità e la gravità delle contestazioni è plausibile ipotizzare che difficilmente la Procura si accontenterà di un importo simbolico come quello ipotizzato.
Per ora siamo ai rumors finanziari. Alla Procura contabile a oggi non è arrivata alcuna proposta formale. Ha citato tutti in giudizio a giugno e la prima udienza del processo sarà ad aprile. Per evitarlo, Morgan Stanley può chiedere il giudizio abbreviato avanzando un proposta di risarcimento del danno su cui la procura deve dare il suo parere. Poi decidono i giudici contabili (e la sentenza non è appellabile). Inutile avanzarla sapendo che verrà rifiutata, per questo la proposta dei 30 milioni – risulta al Fatto – è stata fatta balenare in via informale, con il risultato che è noto. Parliamo dell’1,11% di quanto contestato. Una conciliazione adeguata eviterebbe alla Corte dei conti di trovarsi a difendere il suo diritto di giurisdizione e alla banca Usa un grave danno reputazionale.
Secondo i pm contabili la gestione di quei derivati è stata “sconcertante”. La vicenda è nota. A fine 2011 Morgan Stanley riuscì a farsi pagare dallo Stato 3,1 miliardi grazie a un accordo quadro col Tesoro del 1994 (dg era Mario Draghi) che regolava tutti i contratti con la banca. In quell’accordo fu inserita una clausola che permetteva a MS di chiedere il rientro immediato dell’esposizione superata una certa soglia a suo favore. In caso contrario, poteva chiudere all’istante i contratti facendosi saldare il conto: è accaduto nel 2011. La soglia era così bassa da venire superata quasi subito, eppure il Tesoro ha continuato a siglare contratti senza considerarla. Secondo la procura contabile, in tre casi erano assolutamente “speculativi”, non servivano cioè ad assicurare la gestione del debito, l’unico fine consentito dalla legge. Sono le famose “swaption”, opzioni che permettono a chi le vende di incassare un premio e a chi le acquista di sottoscrivere un derivato a determinate condizioni, che ovviamente esercita solo se gli conviene. Dall’atto di citazione emerge la conclusione sconsolata del consulente della Procura, l’ispettore di Bankitalia Pietro Gugliotta, tra i massimi esperti della materia: le swaption – è la sintesi – non si vendono, casomai si acquistano. Con una del 2004, il Tesoro incassò subito 47 milioni finendo per perdere 1,3 miliardi nel 2011.
Come è potuto succedere? Secondo i pm contabili per mala gestione, gravi imprudenze e irregolarità. Ma la colpa più grande sarebbe proprio della banca Usa. Dall’indagine – è l’accusa – è emerso che Morgan Stanley non era una controparte “alla pari” con lo Stato ma un partner “predominante”, a fronte della tendenza del ministero, con un personale non attrezzato, a “subire le scelte”. Era un vero “consulente” per la gestione del debito ed è tuttora uno degli istituti “specialist”, quelli che assistono il Tesoro nel collocamento dei titoli di Stato. Per questo avrebbe violato “la buona fede nell’esecuzione contrattuale”. Nel 2008, il Tesoro aveva 19 contratti derivati aperti con MS per oltre 15 miliardi di euro. Mai, in 20 anni, era stata menzionata la possibilità di ridurre l’esposizione. “C’era la convinzione che la clausola non sarebbe stata attivata dalla banca”, si è difesa la Cannata, che ha spiegato di aver saputo della clausola solo nel 2006. MS peraltro motivò la scelta di fine 2011 con la “tempesta finanziaria” e l’aumento dello spread, che però non erano previsti come condizioni di chiusura anticipata dei contratti, o con il rating dell’Italia, che però fu tagliato solo a inizio 2012. La realtà – sottolineano i pm contabili – è che la banca voleva evitare che i costi per coprire l’esposizione verso l’Italia potessero danneggiare il bilancio 2011. Per questo è stato inferto un colpo da oltre 3 miliardi allo Stato italiano. Una decisione accettata al Tesoro senza contrastare in alcun modo la fondatezza della pretesa.
Per quegli strani giri di potere degli scandali finanziari oggi a difendere MS c’è, tra gli altri, l’avvocato Antonio Catricalà, l’uomo che nel 2011, da sottosegretario a Palazzo Chigi, assistette alla Caporetto finanziaria. E che da presidente dell’Antitrust istruì la pratica contro Siniscalco, reo di essere uscito dal ministero nel 2005 ed essere entrato proprio in Morgan Stanley senza neanche aver atteso l’anno di quarantena. Siniscalco ebbe un ruolo attivo nella swaption del 2004. In un appunto del gennaio 2004, che menzionava la vendita di queste opzioni, annota: “Tutti e tre i punti mi paiono molto sensati”. Il danno è stato di 1,3 miliardi.