Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2017  settembre 07 Giovedì calendario

L’istituto presta-soldi che lascia in bolletta impiegati e pensionati

Non è una banca. Non è una società finanziaria. Eppure eroga prestiti. Anche fino a 70 mila euro. Non è un istituto di credito eppure, per quei 70 mila euro, ne chiede in cambio ben 118 mila. Rata da 600 euro, per 180 mesi. E con la dicitura “spese di gestione” si aggiungono euro 10.560: parliamo del 12 per cento dell’importo richiesto. Il tasso annuo effettivo globale (Taeg)? L’8,74 per cento.
Non è una banca, non è una societaria finanziaria, ma allora cos’è? È l’Istituto di previdenza e assistenza per i dipendenti di Roma Capitale: l’Ipa. Un ente previdenziale al quale, in cambio di una quota associativa, possono accedere tutti i dipendenti del Comune di Roma. È vero che l’ente, com’è agevole leggere sul suo sito web, ha tra i suoi ambiti d’intervento “la previdenza, l’assistenza” e anche “il credito”; ma la situazione riscontrata da Fabio Serini, il commissario straordinario nominato dalla giunta Raggi, dopo i primi mesi d’indagine interna risulta quanto meno allarmante.
C’è un fatto che segnaliamo per primo, perché meglio di tutti spiega le contraddizioni nella gestione dell’ente: è possibile che esista una sorta di “tesoriere”, esterno all’Ipa, che gestisca finanziamenti per una quota imprecisata di milioni di euro? È possibile che questo soggetto esterno, in assenza di qualsivoglia contratto, sia legittimato a chiedere all’Inps, quando i creditori vanno in pensione, la quota residua del credito erogato? E a quale titolo? È il caso dell’avvocato Angelo Fiumara, che il Fatto ha provato inutilmente a contattare, sia attraverso i recapiti telefonici dello studio, sia attraverso la sua email: “A quale titolo”, gli abbiamo chiesto, “lei si relaziona con l’Inps per la riscossione di parte di alcuni crediti e, poi, con l’Ipa, per restituirli all’ente? Ha una lettera d’incarico? Ha una nomina da tesoriere?”.
Quel che si scopre durante il commissariamento, infatti, è che l’avvocato Fiumara, nel giugno 2017, annunciava all’Ipa di essere creditore di ben 231 mila euro. A quale titolo? Per la “rendicontazione di ben 138 pratiche di recupero crediti”. A quel punto, il commissario Serini chiede di entrare in possesso dei crediti recuperati dall’avvocato. A quanto ammontano? L’Ipa riceve una prima tranche di 407 mila euro. Poi una seconda di 98 mila. Quel che manca, a detta dell’ente commissariato, è però la “rendicontazione” della “dinamica degli incassi effettuati” e delle “spese intervenute”. La corrispondenza prosegue e si scopre che l’avvocato Fiumara, dal febbraio 2016 al luglio 2017, avrebbe gestito flussi monetari per ben 1,2 milioni. Come se fosse un “tesoriere” dell’Ente. Ma ha mai ricevuto questa qualifica? C’è una lettera d’incarico che giustifichi questo modus operandi?
In realtà, secondo la gestione commissariale, non esiste “alcun contratto valido tra l’istituto e il professionista, che regolamenti tale attività”. Esistono soltanto singole procure, una per ogni debitore, che individuano come “procuratore speciale” il “professionista esterno” avvocato Fiumara. Il dato più interessante, però, è un altro: a cosa lo legittimano? Secondo l’indagine interna svolta dal commissario, lo legittimano “a esigere, dall’Inps, il pagamento di tutte le somme giacenti e dovute a titolo di indennità di fine servizio, sino all’importo coincidente con il contante del credito calcolato…”.
In altre parole: il dipendente che, alla fine del suo percorso lavorativo, va in pensione, poiché non potrà vedersi dedurre la “rata” dalla busta paga, si vedrà sottrarre l’intero importo mancante dall’Inps. Quindi l’Inps versa la quota mancante all’avvocato Fiumara che, a sua volta, la riversa all’Ipa. Ma il nodo resta lo stesso: con quale contratto tra l’ente e l’avvocato? Se non bastasse, in molti casi, secondo l’ente oggi commissariato, i “rientri mensili dei prestiti” erogati ai dipendenti comunali, che vengono alla fonte, cioè “dal cedolino” – quindi dallo stipendio – molto spesso “fanno scendere il netto sotto la ragionevole soglia di sussistenza familiare”. Insomma, quel che una banca non fa, ovvero accettare l’indebitamento oltre una certa soglia dello stipendio, lo faceva invece l’Ipa.
Risultato: ad alcuni dipendenti restavano appena 4-500 euro per arrivare alla fine del mese. E quando s’intuisce che il dipendente creditore rischia l’insolvenza, che accade? “Per prassi – spiegano dall’Ente – al fine di mitigare il diritto di insolvenza, l’iscritto veniva indirizzato a formalizzare una procura speciale, non notarile, autenticata da una dipendente del Comune che però, in Ipa, risultava una risorsa impiegata senza alcun titolo autorizzativo”. Tutto in regola? Nel dicembre 2016 l’avvocato Fiumara, dinanzi al giudice onorario Erminio Colazingari, è costretto a incassare una batosta. E con lui, l’Ipa, che rappresenta in giudizio. Un debitore, infatti, ricorre al tribunale dopo un decreto ingiuntivo. E il giudice stabilisce che non appare neppure possibile determinare un credito effettivo vantato all’ente di modo che “… sulla scorta di quanto dedotto da Ipa, il credito non appare determinato né determinabile, dunque assolutamente illiquido. Ciò non può che comportare l’accoglimento dell’opposizione e la revoca dell’opposto decreto”. Sentenze che, come ovvio, mettono in allarme il Commissario che, dopo le prime analisi, ipotizza uno “sbilancio patrimoniale latente di almeno 20 milioni di euro”.
Il patrimonio dell’ente, infatti, conta un attivo monetario di 86 milioni, che corrisponde ai prestiti effettuati agli iscritti, “bilanciato” dalle “quote previdenziali degli iscritti, valutabili in 112 milioni”. In altre parole, se gli iscritti non versassero la quota annuale, l’Ente si ritroverebbe in default. L’erogazione “del credito agli iscritti”, secondo il commissario, è avvenuto con prassi “non proceduralizzate”, in assenza di delibere concernente la determinazione delle cosiddette “spese di gestione…” e, in alcuni casi, “il Taeg supera il 9 per cento”. Se tutto questo è possibile, oltre al commissario, dovrà stabilirlo la Procura di Roma alla quale è stato inviato un esposto.