il Fatto Quotidiano, 7 settembre 2017
Minniti commissaria Alfano: è lui il vero ministro degli Esteri
La foto con il generale Kalifa Haftar segna una svolta nel ruolo – e nelle ambizioni – di Marco Minniti: non più solo ministro dell’Interno, ma anche ministro degli Esteri, e – ovviamente – sempre interlocutore imprescindibile dell’intelligence che, in teoria, dovrebbe riferire a Palazzo Chigi e non al Viminale. La foto dell’incontro con Haftar viene diffusa dal giornale libico Al Wasat, non dal sito del ministero, ma l’importante è che esca: Minniti non solo è ormai il primo garante della tenuta del governo di Tripoli riconosciuto dalla comunità internazionale, quello di Fayez Al-Sarraj, che rafforza per consentirgli di arginare i flussi migratori, ma discute pure con il suo rivale, il generale Haftar. È lo stesso approccio che ha avuto Emmanuel Macron: a poche settimane dall’insediamento, ha convocato a Parigi Serraj e Haftar per una photo opportunity che doveva segnalare al mondo che la Francia tornava a occuparsi della Libia, dopo il ritiro di François Hollande, in reazione alla morte di tre agenti segreti francesi nel luglio 2016, in un elicottero abbattuto dagli islamisti sopra Bengasi.
Minniti addirittura come Macron, dunque. Il ministro inserisce la sua ambizione dentro una dottrina, o almeno un “punto di vista”, come ama dire con understatement: l’unico modo per fermare il traffico di migranti verso l’Italia è evitare che la Libia collassi in uno “Stato fallito”, per questo bisogna rafforzare Sarraj che controlla la Tripolitania da cui passano le carovane dei trafficanti, ma anche placare Haftar, signore della Cirenaica che ormai non ragiona più sul progetto di una spartizione del Paese, ma vuole conquistarlo tutto.
Questa, però, è diplomazia: a che serve avere un ministero degli Esteri se all’estero decide tutto il ministro dell’Interno?
La proiezione geopolitica di Minniti nasce già durante il governo Renzi, quando il futuro ministro era ancora sottosegretario con delega all’Intelligence. Nell’agosto 2014 tutti gli ambasciatori occidentali lasciano la Libia: troppo pericoloso. Resta soltanto quello italiano, Giuseppe Maria Buccino, che resiste fino a febbraio 2015 quando rientra. A quel punto la Libia non è più una questione diplomatica (agli Esteri c’era Paolo Gentiloni), diventa un dossier dell’intelligence, cioè di Minniti. È lui a dover stabilire se e quando ci sono le condizioni per ristabilire relazioni diplomatiche e, nel frattempo, coordinare l’attività sul campo dell’Aise, i servizi segreti esteri. E a dicembre 2016 è di nuovo Minniti a dare la linea: l’intelligence decreta che si può riaprire l’ambasciata, si insedia Giuseppe Perrone. Poi si dimette Matteo Renzi, Paolo Gentiloni va a Palazzo Chigi e Angelino Alfano agli Esteri. Il ruolo libico di Minniti dovrebbe ridursi, ma non è così. Per varie ragioni: Gentiloni tiene la delega all’intelligence, non c’è un sostituto di Minniti nella casella della “autorità delegata”. Quindi anche dal Viminale Minniti può continuare a disporre senza interferenze della sua competenza e presa sul mondo dell’intelligence maturata in un ventennio (come lui c’è solo Gianni Letta). E in Libia l’intelligence continua a essere decisiva, sia nelle interazioni con l’Eni sia nei rapporti con quei soggetti con cui il governo italiano ufficialmente fatica a parlare, tipo il generale Haftar. L’arrivo di Alfano alla Farnesina è impalpabile: sulla Libia il neo-ministro si limita a chiedere a tutti di sostenere l’inviato dell’Onu Ghassan Salamé, sostenitore di nuove elezioni nel Paese che potrebbero compromettere il fragile equilibrio attuale.
A Palazzo Chigi Gentiloni sembra occuparsi poco di intelligence e ancora meno di Libia: da ministro degli Esteri è stato il primo tra gli occidentali a visitare il governo di Serraj, una mossa per marcare l’influenza italiana ma che ora rende difficile per il premier accreditarsi come mediatore tra le varie fazioni. Si occupa di tutto Minniti, dal codice per le Ong alle trattative con i sindaci libici che chiedono risorse per un’economia alternativa a quella fondata sul traffico di migranti, alle relazioni con Haftar. Anche se il ministro è abbastanza abile da sfruttare le ambiguità del suo ruolo: rimandare l’ambasciatore Giampaolo Cantini al Cairo – segnale distensivo dopo gli scontri con il generale Al-Sisi per l’omicidio di Giulio Regeni –, serve anche e forse soprattutto, a facilitare i rapporti con Haftar, sostenuto dall’Egitto. Ma quella scelta improvvisa alla vigilia di Ferragosto è stata imputata tutta a Gentiloni e Alfano, non certo a Minniti. In fondo, lui è soltanto il ministro dell’Interno.