Il Sole 24 Ore, 7 settembre 2017
Ragioni (e sfide) dell’industria
Se è vero che crescita e benessere di una società sono in larga parte il risultato della sua politica commerciale. Se è vero che la globalizzazione degli ultimi 15 anni ne ha sconvolto quasi tutti i fondamentali destabilizzando mercati e modelli di sviluppo. E se è vero che, su 80 inchieste antidumping in corso a Bruxelles, circa 60 interessano i prodotti italiani (per lo più vittime della concorrenza sleale cinese), inevitabilmente la riforma del sistema anti-dumping europeo da dossier tecnico si trasforma in una scelta politica e strategica decisiva.
In breve, diventa l’arma indispensabile per correggere indebite distorsioni fissando le nuove regole di una partita da giocare ad armi pari, senza trucchi e prezzi stracciati, salvaguardando mercati aperti e libera concorrenza. Nell’interesse generale.
Si negozia da oltre un anno nell’Unione tra alti e bassi, sgambetti e contrattacchi più o meno gridati. Il capolinea sembra ormai dietro l’angolo ma l’esito della trattativa ancora non è scontato.
Da una parte ci sono l’Italia con una decina di Paesi e il parlamento europeo, tutti decisi a ottenere una riforma equa in cambio del riconoscimento di fatto alla Cina dello status di economia di mercato, che in realtà ancora non ha ma l’equipara subito alle altre maggiori economie del mondo. Questo significa fornire all’industria manifatturiera europea strumenti di difesa commerciale adeguati alla sfida di un colosso che continua ad asfaltare i concorrenti a colpi di vendite sottocosto, sussidi pubblici incontrollati alle imprese, chiusure ermetiche del proprio mercato.
In concreto, onere della prova del dumping a carico degli esportatori, periodi lunghi di transizione nel passaggio da un regime all’altro per tutelare soprattutto le piccole e medie imprese.
Dall’altra ci sono i Paesi del Nord e in parte quelli dell’Est, tradizionalmente i più aperturisti perché più commercianti che produttori, che premono per un sistema morbido che più di tanto non distingua tra Cina, Stati Uniti o Giappone nel giudicare le scorrettezze nell’interscambio. Apparentemente dalla loro c’è anche la Commissione Ue che intende difendere i suoi poteri anti-dumping (onere della prova), vuole decidere presto, entro settimana prossima, e teme una sentenza di condanna da parte della Wto (World Trade Organisation) che in primavera si pronuncerà sul ricorso presentato dalla Cina.
In mezzo c’è una Germania bifronte e in campagna elettorale, dilaniata dalla contraddittorietà dei suoi interessi nei confronti di Pechino ma quasi sicuramente appoggiata dalla Francia di Macron, che ha troppo bisogno di Berlino su altri dossier per non renderle un favore se richiesta.
Se infatti, avendo la prima manifattura europea, l’industria tedesca non può che volerla difendere, la forte internazionalizzazione delle sue filiere produttive e relativa necessità di assicurarne la riesportazione, insieme alla fame dell’immenso mercato cinese, la rendono titubante sull’opzione migliore su cui puntare.
Paradossalmente a complicare ulteriormente un braccio di ferro durissimo, da cui di fatto dipende la futura sopravvivenza dell’attuale industria italiana, c’è la richiesta congiunta di Germania, Italia, Francia e Spagna alla Commissione per l’adozione di misure restrittive Ue sugli investimenti extra-europei, sostanzialmente cinesi, in settori strategici, come militare, infrastrutture, eccellenze tecnologiche. Pur restando alla finestra delle attuali ed esclusive competenze nazionali in proposito, Bruxelles annuncerà la settimana prossima un regolamento Ue per rendere le decisioni più trasparenti.
È evidente che i paletti nazionali ai suoi investimenti in Europa non sono fatti per piacere alla Cina. Ma un Paese come la Germania, che scommette sempre di più sull’innovazione industrial-tecnologica più avanzata per garantire negli anni il futuro della propria industria e del proprio benessere tenendo testa alla furibonda concorrenza della Cina nell’intelligenza artificiale e simili, tra investimenti e antidumping, cioè tra due sicuri schiaffi a Pechino, potrebbe alla fine preferire il primo per non consentire la fuga delle sue più alte tecnologie.
Se così fosse, per la manifattura italiana sarebbe un campanello d’allarme da non sottovalutare: l’implicito invito a mettersi al passo e in fretta con i tempi nuovi, destinati a premiare sempre più le eccellenze industriali europee più innovative, in qualsiasi settore, e sempre meno produzioni e catene del valore medio o basso.
La battaglia dell’antidumping a Bruxelles non è finita: anche se alla fine dovesse concludersi in modo equilibrato salvaguardando un po’ tutti gli interessi in campo, l’Italia e la sua industria non potranno né dovranno accontentarsi ma guardare oltre: le barriere contro la concorrenza sleale sono necessarie, nel mondo globale arroccarsi sulla difensiva va bene ma è ancora più importante passare all’offensiva. Solo reinventando il suo futuro, rinnovando anche la sua industria per metterla con i tempi e i modelli che cambiano, il Paese riuscirà a cavalcare una nuova era di benessere.