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 2017  settembre 07 Giovedì calendario

Il calvario di Bibi la «blasfema» tremila giorni rinchiusa in cella

BANGKOK La fedele cattolica Aasiya Noreen, conosciuta come Asia Bibi, celebrerà pregando come ha sempre fatto i suoi 3000 giorni in una cella senza finestre di 2 metri per tre dove è rinchiusa dal 2009 con l’accusa di “blasfemia”. È un reato punibile con la morte nello Stato islamico del Pakistan dove si svolge il suo processo kafkiano che in caso di assoluzione prevede già una violenta sollevazione di massa degli ortodossi.
«Gesù – recita Bibi dall’inizio del suo calvario – spezza le mie catene, fa’ che il mio cuore possa librarsi al di là di queste sbarre». Ma liberarla non è facile per nessuno, stretta com’è tra pressioni sociali, politiche e religiose che, a prescindere dalle sue colpe reali, fanno del suo caso un potenziale detonatore della rabbia di numerosi gruppi oltranzisti. La sfida è tra la visione wahabita radicale e la politica moderata dello Stato, di molti cittadini e dei giudici che non applicano la legge coranica nei codici civili.
Bibi ha 46 anni, piccola di statura, carismatica e di fede incrollabile. Venne condannata all’impiccagione un anno dopo l’episodio della presunta “blasfemia”, una frase buttata lì durante un alterco con altre lavoratrici stagionali di un frutteto che l’avevano umiliata per aver bevuto un bicchiere dal pozzo a lei proibito, in quanto “infedele cristiana” e quindi “impura”. «Credo nella mia religione – avrebbe detto Bibi – e in Gesù Cristo, morto sulla croce per i peccati dell’umanità. Cosa ha mai fatto il vostro profeta Maometto per salvare l’umanità?». Vere o false, le sue parole si sparsero come il vento e l’intero villaggio scese in strada chiamato a raccolta dagli altoparlanti delle moschee. Ma dopo averla picchiata brutalmente, la lasciarono viva per ordine dell’imam, che preferì sporgere contro di lei una denuncia dove si affidava al codice civile- religioso la pena massima dell’impiccagione. Infatti nel 2010 Bibi fu condannata a morte e sentì la folla raccolta alla sentenza gridare “Bravo!” al giudice, “Uccidila!, uccidila!”, “Allah è grande!”.
Per la sua liberazione si mosse Papa Benedetto XVI e il quotidiano cattolico Avvenire continua da allora in Italia una campagna di solidarietà, oltre alle iniziative degli esponenti di altre fedi colpiti dal fato di questa semplice contadina, madre di due figlie e di altri tre bambini dal precedente matrimonio di suo marito. La prima sentenza venne annullata per insufficienza di prove e la Corte suprema impose una revisione del processo. Da allora Bibi attende nel limbo tra la vita e la morte, mentre due coraggiosi politici nazionali che l’avevano sostenuta, il governatore musulmano del Punjab Salmaan Taseer e il ministro cristiano delle minoranze Shahabaz Bhatti, sono stati uccisi da killer diventati “eroi”. Uno di loro, ex guardia del corpo di Taseer, dopo essere stato giustiziato per l’omicidio divenne un martire dell’Islam.
In Asia Bibi gli ortodossi vedono la nemica ideale perché proclama in lettere, e perfino in un libro-intervista, la supremazia del suo Dio. Più volte ha rifiutato di convertirsi per salvare la pelle, anche quando alla vigilia della prima sentenza capitale il giudice Naveed Iqbal le offrì un atto di fede a Maometto in cambio della vita. «Grazie – le rispose la donna – ma se lei mi condanna a morte perché amo Dio, sarò orgogliosa di sacrificare la mia vita per lui».Durante una delle rare visite concesse alla famiglia nel carcere di Multan dov’è ancora in isolamento per timore di un’aggressione delle detenute ultrareligiose, Bibi chiese al marito di diffondere questo messaggio: «La potenza della Sua mano – gli disse – mi darà la libertà. Quando San Pietro si trovava in carcere, lo Spirito Santo è venuto e ha aperto la porta della sua cella. Io mi aspetto un miracolo così».
Ma i giudici-uomini del nuovo processo non hanno fretta. Nel caso dovessero assolverla, sanno che l’apertura della sua cella spalancherebbe le porte dell’inferno di una rivolta. In 27 anni ci sono stati 66 casi analoghi di delitti extragiudiziari per “blasfemia”: ad aprile all’Università Abdul Wali Khan di Mardan i compagni di classe hanno torturato e ucciso lo studente cattolico di giornalismo Mashal Khan accusato aver «infangato il nome del profeta». L’ultimo linciaggio è stato evitato in extremis dalla polizia il 12 agosto scorso in un villaggio attorno a Wazirabad, dove un ragazzo cristiano sedicenne di nome Asif Masih è stato picchiato e circondato da 200 persone pronte a lapidarlo.